La Valpolicella ha intrapreso il percorso per il riconoscimento della tecnica di appassimento delle uve fra i beni immateriali della Convenzione Unesco. Al via la seconda fase della candidatura, la “call to action” organizzata dal comitato promotore, sotto il coordinamento del Consorzio per la Tutela dei Vini della Valpolicella, con il claim “Appassimento ritorno al futuro”. Appassimento come valore culturale fortemente identitario che da oltre 1500 anni permea questo territorio, ne rispecchia la storia sociale, politica, economica. Sostenere la candidatura significa riconoscere la cultura, le radici, la capacità di impresa di questa comunità. “Datemi una leva e vi solleverò il mondo”, disse Archimede. Se ne è parlato al convegno Unesco tenutosi in questi giorni alla Collina dei Ciliegi, in Valpantena (Verona).
Ma cosa significa bene immateriale? L’Italia ha il primato mondiale per siti Unesco, per quei patrimoni materiali, tangibili, siano essi monumento, sito o paesaggio: ben 55 dichiarati nel 2019. Inizialmente l’Unesco disciplinava solo i beni culturali aventi il carattere della materialità, ossia quei patrimoni che rilevano sotto il profilo dell’ integrità, dell’autenticità e dell’unicità. Un esempio: riconoscere che il centro storico di Verona è unico equivale a dire che non c’è nulla di simile nel mondo. Ma i monumenti, le opere d’arte, i siti naturali e le aree archeologiche bastano per narrare la storia dell’umanità? La risposta è no. Solo successivamente la nozione di bene culturale è stata ampliata includendo anche i beni immateriali, ossia quei beni in cui non bisogna dimostrare un’unicità. Per tornare al nostro caso, la tecnica di appassimento delle uve: qui bisogna dimostrare che la pratica non è solo una catena della produzione, ma un fattore identitario tale per cui, se si perde, le persone perdono una parte del loro bagaglio identitario. La convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale risale al 2003. Le identità culturali, quelle molto piccole locali identificano il proprio territorio con tradizioni in cui gruppi di persone si riconoscono dalla notte dei tempi, creando un forte senso di appartenenza. Va da sé che il patrimonio culturale mondiale non è costituito solo da un insieme di luoghi e monumenti fisici, ma comprende anche quelle espressioni intangibili in cui si manifestano la storia, le tradizioni e i valori di un popolo e che sono percepite come tali dalle generazioni future.
L’Italia ha anche un altro primato mondiale: per patrimoni culturali immateriali iscritti nell’ambito agroalimentare. È stato il primo paese al mondo a iscrivere una pratica agricola legata alla viticoltura, quella di Pantelleria. Fino a quel momento la Commissione Unesco era contraria a riconoscere una pratica legata alla vinificazione come patrimonio culturale, per motivi anche geopolitici. Il vino non è da tutti “digeribile” come argomento. Ci sono fasce della popolazione mondiale che ritengono che l’alcol non sia un elemento culturale. Con Pantelleria si è dimostrato come le pratiche agricole, prescindendo dal prodotto finale, siano elementi di grande valore. L’appassimento delle uve ha una storia antica come la vite. Già Cassiodoro nel V secolo d.C, in una lettera al re, descriveva la tecnica di appassimento della Valpolicella, tessendone le lodi.
“Abbiamo avviato questo percorso per accrescere il patrimonio immateriale del nostro territorio, che poi, se ci pensiamo bene, è tangibile e si può toccare con mano. Negli anni c’è stata una evoluzione nella tecnica della messa a riposo dell’appassimento e noi ne siamo la testimonianza”, commenta Christian Marchesini, presidente del Consorzio Valpolicella . “Vogliamo condividere questo saper fare. Compito del Consorzio è essere inclusivo perché rappresenta tutti i produttori della denominazione. Le nostre porte sono aperte a chiunque sia interessato a capire cos’è la Valpolicella”.
Inclusione è la parola d’ordine. “L’Unesco, l’organizzazione internazionale che promuove la bellezza, la scienza, la cultura nel mondo, aveva come focus il patrimonio monumentale. Lungo il percorso, però, si è accorta che bisogna essere più inclusivi del sapere”, spiega il professor Tullio Scovazzi. “L’appassimento ha due elementi: uno oggettivo, la pratica, e uno soggettivo, una comunità di portatori di questa pratica. L’elemento sociale è quello che caratterizza questa lunga tradizione che non vale di per sé come manifestazione estetica o commerciale ma vale perché identifica una certa comunità. Qui non si cerca un eccezionale valore universale. La lista è infatti rappresentativa del patrimonio culturale intangibile, quindi un elemento è un frammento del tutto, non è il meglio del tutto. Questo perché non si vuole creare una gerarchia tra una comunità e un’altra, ma conta che venga valorizzata una comunità identificata. A volte gli elementi troppo generici creano qualche difficoltà. Per esempio, è stata iscritta nella lista la dieta mediterranea. L’Italia era tra i quattro stati promotori, ma il problema era identificare una comunità portatrice di quei valori fra centinaia di migliaia di persone che vivono nell’area mediterranea. La prima volta la candidatura è stata ritirata perché mancava questo elemento, successivamente è stata identificata una comunità emblematica, anche se non esclusiva, di questa pratica in ciascuno dei paesi promotori, per l’Italia era la comunità del Cilento”. A proposito dell’appassimento: “La vostra è una candidatura forte, ma deve essere presentata correttamente. Bisogna accentuare l’elemento sociale collettivo della candidatura più che quello commerciale, perché ci si rivolge a degli antropologi. Il patrimonio è qualcosa di inclusivo, deve essere aperto alla comunità e ai membri all’origine estranei ad essa. Evitiamo il termine ‘esclusivo’. Quando si aspira a un riconoscimento da parte dell’Unesco non si rivendica una proprietà, ma si vuole condividere la propria cultura con i popoli di tutto il mondo, perché si ritiene che debba diventare di tutti. Non ci si vuole chiudere ma aprire affinché la propria diversità culturale sia conosciuta e compartecipata dagli altri. Proprio per questo bisogna essere molto attenti all’uso delle parole. ‘Autenticità’ è un altro termine delicato, perché dà l’idea di qualcosa di fisso e immutabile, invece il patrimonio immateriale evolve naturalmente nel tempo. Come un individuo nasce, cresce e invecchia, una pratica muta”.
Per il professor Pier Luigi Petrillo, che presiede l’organo degli esperti mondiali dell’Unesco, quello che riceve le candidature e le valuta, occorre soffermarsi su tre aspetti: la procedura, il senso della candidatura e cosa si deve fare per sperare di ottenere il riconoscimento. “È un percorso lungo, articolato e pieno di incognite, ma deve essere partecipato, sentito, vissuto. Io rappresento i paesi dell’area europea. Entro in contatto con richieste che provengono da 180 stati diversi. C’è una competizione a livello internazionale perché ognuno di loro può presentare al massimo una candidatura all’anno e ce n’è una nazionale perché ogni stato deve decidere cosa candidare fra le tante proposte che riceve. In Italia, per esempio, ci sono 30-35 tradizioni che aspettano da anni di essere candidate. Una volta che un paese ottiene la candidatura, il nostro organo ne può valutare solo 60 di 180 ogni anno”, spiega Petrillo. “Serve la massima partecipazione da parte dei praticanti l’elemento. Questo processo impone alle istituzioni di prendere consapevolezza delle tradizioni e di porre in essere delle misure di salvaguardia. L’organizzazione quando valuta la candidatura chiede allo stato che la presenta cosa stia facendo per tutelare quella tradizione. Si impone una duplice riflessione: da una parte coloro che praticano questo elemento devono rendersi conto del suo valore culturale, del motivo per cui la tecnica viene praticata da anni, prima per il Recioto e poi per l’Amarone, del legame che ha con il territorio, dall’altra ci si deve interrogare su come lo stato tuteli la tecnica per evitare che le nuove generazioni disperdano questo tipo di racconto”. A proposito degli effetti del riconoscimento: “L’appassimento è una candidatura importante per rafforzare un territorio e una comunità. La risposta positiva dell’Unesco produce un effetto incredibile a livello di visibilità anche per quelle realtà che sono già visibili di per sé. Penso a Padova, che dopo il riconoscimento dello scorso anno degli affreschi di Giotto ha visto aumentare del 300 per cento le prenotazioni su scala mondiale per la visita alla Cappella degli Scrovegni. Altro esempio di successo è il territorio di Conegliano e Valdobbiadene, i cui flussi turistici sono quadruplicati in poco meno di sei mesi dopo l’iscrizione del paesaggio del Prosecco Superiore, ponendo un tema importante di gestione di quelle zone. Lo steso vale per i patrimoni immateriali. Porto il caso dei pizzaioli, alla cui candidatura ho lavorato per otto anni. Conoscevo pizzaioli depressi, perché nella filiera della ristorazione la loro attività è considerata marginale. Il riconoscimento Unesco ha trasformato quella comunità e fatto capire ai pizzaioli l’orgoglio del proprio mestiere. È cambiata la percezione di quel sapere fare. Il riconoscimento rafforza il legame tra le persone e il territorio da cui provengono. Nel dossier un elemento di forza per quanto riguarda l’appassimento delle uve è la pratica inclusiva di realtà di disagio sociale, di stranieri che, attraverso la conoscenza della pratica stessa, si integrano nella comunità. Il senso della candidatura è legato al paesaggio, che ha questa precisa conformazione proprio grazie alla tecnica. Se cambiamo la tecnica cambiamo il paesaggio, trasformiamo il territorio, produciamo altre cose. Se anziché mettere a riposo le uve, le mettiamo in freezer che in una settimana riproducono la stessa tipologia di uva, abbiamo cambiato completamente il paesaggio perché è quella lentezza legata alla produzione che produce questa conformazione morfologica. Rivendicare la candidatura significa portare con sé la tutela del territorio. Questo è un percorso che impone una grande coesione. Tutti i processi di patrimonializzazione impongono unità. Non bisogna escludere nessuno. La pratica non è un patrimonio solo delle aziende consorziate. Il Consorzio ha avuto la visione di partire, ma con grande generosità ha sottolineato l’apertura verso tutti a far parte di questo processo”. Lancia un’idea: “Questi patrimoni individuali, che vivono nei racconti delle persone, devono essere sistematizzati. Penso a un museo virtuale della messa a riposo, che raccolga le storie, le tradizioni e le documenti, anche per evitare che si perdano. Un museo fruibile a chiunque, a Hong Kong come a Londra. È una sfida che deve essere raccolta per le nuove generazioni. Se perdiamo le nostre tradizioni diventiamo uguali a tanti altri. Occorre rivendicare con orgoglio una certa identità per far capire ai giovani da dove provengono”.
Ma in cosa consiste l’appassimento? Con questa tecnica le uve sono lasciate appassire naturalmente prima della pigiatura, un’arte che contraddistingue la produzione dell’Amarone e del Recioto e che conferisce ai vini corpo, struttura e un’alta concentrazione ed espressione aromatica. Vengono raccolti i grappoli più spargoli e posti sulle “arele”, dei graticci di canna di palude che anticamente erano utilizzati per l’allevamento dei bachi da seta. Con il venir meno di questa tradizione furono riciclate e impiegate per l’appassimento dell’uva. L’architettura rurale della Valpolicella rispecchia la tradizione con la costruzione dei fruttai, spazi in cui le arele sono poste, costruiti secondo la direzione dei venti, in posizioni tali da consentire un basso livello di umidità e una elevata ventilazione naturale.
“L’appassimento lo abbiamo accolto dall’esterno, dai Reti che nel III secolo a.C si stabilirono nel cuore della Valpolicella, a Fumane, e lo abbiamo magnificato”, commenta lo storico Lorenzo Simeoni.
Per l’antropologa Anna Maria Paini: “Purtroppo il patrimonio culturale continua a essere associato a tutto quel mondo che comprende la dimensione di preservazione e di fruizione estetica. Patrimonio culturale non significa solo beni materiali. È sempre prevalsa l’idea che il patrimonio fosse costituito dai capolavori storico-artistici. L’antropologia considera la cultura non in senso elitario, colto, ma in un senso che abbraccia le pratiche, gli usi, il sapere fare, i know how di una data comunità legata a un dato territorio. Un concetto che è relativista e pluralista nella sua articolazione contemporanea. Le culture sono poste tutte sullo stesso piano. Una comunità patrimoniale è costituita da uomini e donne che si riconoscono in un certo valore culturale e lo promuovono e valorizzano in un’ottica di dinamicità”.