C’è qualcosa di profondamente affascinante nel tornare a parlare oggi del progetto Chianti Classico 2000, quella grande avventura scientifica e visionaria che, tra la fine degli anni Ottanta e i primi Duemila, ha ridisegnato la viticoltura del Gallo Nero.
Ne parlo con Giovanni Manetti, presidente del Consorzio Vino Chianti Classico e anima di Fontodi, in margine alla degustazione di Milano dedicata ai vini ottenuti dai cloni di questo progetto.
Fu un lavoro di ricerca pionieristico, nato quando parole come “selezione clonale”, “microparcella” e “resilienza climatica” non erano ancora patrimonio comune. In un tempo in cui la viticoltura cercava quantità, il progetto decise di puntare tutto sulla identità: su cloni di Sangiovese capaci di esprimere con coerenza la voce del singolo vigneto. Un atto di fiducia nel territorio e nel tempo lungo della vigna.
A vent’anni di distanza, quella visione si rivela oggi profetica: la conoscenza raccolta allora aiuta il Chianti Classico a navigare le sfide del clima e dei mercati.
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Presidente, Chianti Classico 2000 è stato una rivoluzione silenziosa. Il progetto viene spesso definito una svolta epocale. In che senso quei cloni sono stati davvero “rivoluzionari e anticipatori?
È stato un progetto lungimirante. Alla fine degli anni Ottanta il nostro vigneto aveva bisogno di essere rinnovato, ma non volevamo ripetere gli errori del passato, quando si inseguivano solo produttività e uniformità. Il “2000” ha introdotto un metodo nuovo: osservare, misurare, sperimentare in campo. Abbiamo selezionato e studiato all’interno del territorio cloni di Sangiovese e Colorino che potessero garantire grappoli più arieggiati, bucce spesse, maturazioni più omogenee. Ma la vera rivoluzione è stata culturale: da allora abbiamo imparato a ragionare vigna per vigna, a scegliere il clone, il portainnesto, la densità, in base a ogni singola parcella. È così che il Chianti Classico ha ritrovato la sua voce territoriale, la sua complessità e la sua eleganza. Oggi, con il cambiamento climatico, quella conoscenza è più preziosa che mai. È un patrimonio vivo, che ci permette di adattarci senza perdere identità.
La degustazione di oggi ha mostrato vini vivi, freschi, armoniosi anche nelle annate più mature. Cosa ci dicono questi calici sul futuro del Chianti Classico e sulla forza dei cloni del 2000?
Ci dicono che la strada intrapresa con il progetto Chianti Classico 2000 è stata quella giusta. Questi cloni hanno saputo unire ricchezza e finezza, forza e freschezza, rispettando pienamente il carattere del Sangiovese. Oggi dimostrano una straordinaria capacità di invecchiamento e una costanza qualitativa che non era scontata vent’anni fa. Ma, soprattutto, ci ricordano che l’innovazione vera nasce dal rispetto della terra: conoscere meglio le nostre vigne, scegliere in modo consapevole, dare continuità a un sapere antico con strumenti moderni. È così che il Chianti Classico continua a parlare al mondo senza perdere la propria voce.
In un panorama affollato di eventi legati al vino, cosa vuole raccontare oggi il Gallo Nero oltre il calice?
La stessa cosa che facciamo da sempre: raccontare il nostro territorio attraverso la passione dei circa cinquecento viticoltori che lo custodiscono. Il Chianti Classico nasce da un paesaggio straordinario, che va assecondato più che modificato. Spero che i vini assaggiati oggi restituiscano proprio questo: l’identità territoriale e il grande fattore umano che da secoli lo rendono unico.
Qual è l’attualità del Chianti Classico?
È un vino che ha saputo evolvere restando fedele a sé stesso. È apprezzato da generazioni diverse e continua a conquistare i giovani, che rappresentano una parte crescente del nostro pubblico. Questo ci dà fiducia: significa che il Chianti Classico non è percepito come un vino “tradizionale” in senso statico, ma come un classico contemporaneo.
Il Chianti Classico è uno dei rari esempi in cui l’identità territoriale coincide con quella culturale. Come si custodisce questo patrimonio senza chiudersi in una nicchia?
Con grande rispetto per il paesaggio e per l’eredità delle generazioni precedenti. Dobbiamo evitare interventi che ne snaturino l’armonia e continuare a curarlo con attenzione, preservando quella bellezza che i pittori senesi e gli artisti del Rinascimento ci hanno tramandato. Il Chianti Classico è un ecosistema agricolo e culturale insieme: custodirlo è una responsabilità collettiva.
La “Gran Selezione” è considerata il fiore all’occhiello della denominazione. È nata con lei: com’è cresciuta in questi anni?
Oggi quasi il 60% delle aziende produce Gran Selezione, e il numero di etichette è aumentato notevolmente. All’inizio c’era un po’ di cautela, soprattutto tra i piccoli produttori, ma ora la consapevolezza è diffusa. La Gran Selezione rappresenta un cambio di mentalità: non solo puntare alla qualità, ma far sì che questa qualità sia la massima espressione del proprio vigneto. Rafforza il legame tra vino e territorio, e questo è il cuore del nostro lavoro.
E sul fronte commerciale? Stati Uniti, Canada e Regno Unito restano i mercati chiave per il Chianti Classico?
Sì, assolutamente. Gli Stati Uniti restano il nostro mercato principale: nonostante dazi e oscillazioni dei cambi, rappresentano circa il 32–35% delle vendite a volume. È un pubblico maturo, che conosce e ama il Chianti Classico, soprattutto nelle versioni più territoriali. Ci sono aree in forte espansione, come il Texas e la Florida, dove la cultura del vino rosso si sta consolidando. Il Canada, che vale circa il 10% dei volumi, è un mercato stabile e curioso, sostenuto anche da una grande comunità italiana. Quasi una bottiglia su due del Chianti Classico attraversa oggi l’Atlantico. Il Regno Unito, pur tra le difficoltà logistiche degli ultimi anni, resta uno sbocco importante, soprattutto per le fasce premium e la ristorazione di alto livello. Certo, dazi e costi di trasporto pesano, ma la solidità del marchio, la sua storia e la sua coerenza stilistica ci permettono di mantenere una presenza forte. Questi mercati non comprano solo un vino: comprano una cultura, un paesaggio, un’idea di bellezza italiana.
Guardando al futuro, quanto è importante diversificare i mercati? E quali aree emergenti mostrano interesse per il Chianti Classico?
È fondamentale. Non possiamo dipendere solo dai mercati storici, per quanto solidi. Diversificare significa non solo vendere di più, ma diffondere la nostra cultura del vino in contesti nuovi. Negli ultimi anni l’Asia offre segnali molto promettenti: la Corea del Sud è oggi uno dei mercati più dinamici, con un pubblico giovane e competente che ama i rossi eleganti ed è uno dei quelli che è cresciuto di più negli ultimi anni, tanto da eguagliare il Giappone, nostro mercato classico; la Thailandia cresce rapidamente, soprattutto nella ristorazione di alta gamma, così come Singapore, Malesia e Vietnam. Poi c’è il Sud America, dove l’accordo Mercosur ha aperto prospettive concrete per l’export europeo. In Brasile stiamo sviluppando iniziative mirate; anche Cile, Uruguay e Argentina mostrano crescente interesse per i vini italiani e per denominazioni fortemente identitarie come la nostra. In Europa, Germania e Regno Unito restano i mercati principali: in Germania c’è stata una leggera flessione, ma continua a essere il nostro primo mercato nel continente. Sono realtà diverse, ma accomunate da curiosità, cultura del vino in evoluzione e consumatori sempre più attenti alla qualità autentica.
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Ascoltando Manetti, si capisce che dietro ogni clone e ogni mercato c’è un pensiero più grande: quello di un vino che vuole essere identità e apertura. Forse è questo, in fondo, il vero lascito del Chianti Classico 2000: aver insegnato che l’evoluzione non è tradimento, ma fedeltà nel tempo.

