WINESTOP&GO Speciale Emilia

Il vino dei colli piacentini di Fabrizio e Paolo Illica

 

Proseguiamo il lungo cammino delle cantine emiliane che vinificano con metodo classico e rifermentati in bottiglia. Questo Stop&Go lo dedicheremo anche a “un beve ripasso” – concedetemi dunque una introduzione che non vuole, però, essere scolastica – prima di entrare in merito alla cantina oggetto di questa puntata, ovvero Illica Vini, dei fratelli Fabrizio e Paolo Magnani Illica. Il nome proprio delle tre etichette di metodo classico Illica, con tanto di indicazione 1919 nelle due declinazioni Blanc de Blancs e Blanc de Noirs, fa proprio riferimento a quel Luigi Illica, noto librettista italiano originario di Castell’Arquato, sui colli piacentini, collaboratore di Giuseppe Giacosa per libretti d’opera prevalentemente pucciniani, morto appunto nel 1919.

Nel panorama contemporaneo delle province da sempre attive sulle bollicine, come Piacenza, Parma, Reggio, Modena e in parte anche Bologna, oltre il Lambrusco nelle sue tante varietà, è stata fatta una interessante operazione di recupero di uve autoctone come la Spergola, e altri interessanti vitigni sono ritornati in auge: bonarda, fortana, malvasia aromatica di Candia, ortrugo e in parte il trebbiano modenese. Piccole e grandi realtà vitivinicole hanno poi portato in Emilia il pinot nero e lo chardonnay, basti pensare ad esempio a Lini e Cantina della Volta, solo per citarne un paio. Poi c’è chi recupera la barbera, individuando suoli vocati a questo vitigno, proprio come ha fatto e sta facendo Illica, convertendo anche appezzamenti dedicati ad altre varietà.

Illica eredita l’azienda di famiglia creata dal nonno che negli anni ’50 faceva il vino “da queste parti”. Già negli anni ’90 inizia la trasformazione in biologico. Siamo nella valle del torrente Ongina che sfocia in Val d’Arda, comune di Vernasca, in totale 8 ettari vitati su posizioni diverse, all’interno della riserva geologica del Piacenziano, dove i terreni ricchi di fossili testimoniano che lì, 5 milioni di anni or sono, il mare lambiva questi luoghi oggi cuore del Gutturnio Doc (come da disciplinare, barbera e croatina, vitigno che gli emiliani chiamano bonarda, creando un po’ di confusione con la bonarda piemontese).  I terreni fossili  trasmettono al vino caratteristiche di acidità e sapidità, da cui la volontà di vinificare con metodo classico.

Ma oltre il territorio, su cui la narrazione diffusa è fin troppo insistente, oltre le uve e il metodo di vinificazione, è altrettanto significativo parlare delle persone. Sono soprattutto le piccole realtà vitivinicole, le aziende a dimensione d’uomo che possono far emergere figure di spicco, personaggi interessanti attorno a cui ruota la cantina. Sono quasi sempre uomini con tanta fantasia e creatività, oltre al prerequisito di saper fare il vino. Fabrizio e Paolo Illica oggi possono vantare di produrre anche vini vegani, visto che tutto il ciclo di lavorazione avviene senza l’impiego di sostanze di origine animale. I due fratelli sono certamente voci fuori dal coro. In generale, voci fuori dal coro così è un bene che ci siano. Il lavoro di artigiani del vino come sono loro in questi ultimi due decenni sta lentamente modificando l’opinione pubblica su ciò “che si fa qua in Emilia”. Capiamoci, i nostri vicini di casa sono stati più bravi di noi nel promuovere il metodo classico e quando dico vicini di casa, intendo proprio i nostri confinanti: Oltrepò Pavese, Franciacorta e Trento Doc. Senza dimenticare, appena un po’ più in là, l’Alta Langa. E non hanno iniziato prima di noi a fare le bollicine. Sulla scia, finalmente alcune nostre cantine si distaccano dalle grandi quantità, divenendo affermate eccellenze, siano esse piccole realtà a conduzione familiare oppure grandi aziende che compiono operazioni selettive sul territorio. Talvolta fino al punto di creare nuovi nomi e cantine dedicate a produzioni di numeri senza troppi zeri. Il problema emiliano sta proprio nella nomea dei grandissimi numeri che rappresentava il Lambrusco fino alla fine degli anni ’90 (e in parte anche dopo). Dunque ben vengano i piccoli produttori con limitati appezzamenti di terra, factotum in azienda che devono mettere mano a ogni passaggio produttivo, seppure a fatica, uomini e donne che sono poi gli stessi che dialogheranno direttamente con il turista enogastronomico, mettendoci la faccia.

Il lavoro di Fabrizio e Paolo Illica si può quindi riassumere su due fronti: la conversione di vecchie vigne potenziando la barbera, che sui loro terreni trova condizioni ottimali, e la continua sperimentazione di nuove etichette per arrivare a prodotti maturi, consolidati ed esemplari sul mercato. Ma se siamo qua a parlarne, evidentemente già lo sono. Un cammino che li accomuna ad altre realtà che abbiamo già visitato, come ad esempio Graziano Terzoni, enologo nel suo Podere Pavolini a Bacedasco Alto. E tutto sommato, esplorando questi territori da anni, per un motivo o per l’altro si torna sempre sui colli piacentini: penso ad esempio al limitrofo territorio del Vin Santo di Vigoleno (siamo sui 1500 litri in totale all’anno!), che ci regala un vino straordinario. Se noi italiani non fossimo troppo spesso esterofili in tante loro scelte e gusti, ci accorgeremmo che questo vin santo creato da pochi micro produttori, vinificando in prevalenza uve autoctone santa Maria e melara, viene giudicato sempre con punteggi altissimi; ma a parte questo, è davvero buonissimo.

Venendo ai vini di Illica, ci concentreremo sulle bollicine, non dimenticando che Fabrizio e Paolo imbottigliano anche L’Ongino, un Gutturnio Superiore con il 70% di Barbera e il restante di Croatina; il Piacenziano, un Gutturnio frizzante rifermentato in bottiglia; il Traiano, un bianco fermo frutto della vinificazione in acciaio delle uve raccolte a 700 metri slm di malvasia aromatica di Candia, ortrugo, trebbiano e chardonnay. E c’è anche un passito di malvasia aromatica di Candia muffato in pianta, l’Archeus, da un vitigno di oltre 50 anni disposto proprio lungo il torrente Ongina, che viene “dimenticato” in barrique non tostate per un affinamento di 8 anni.

Ma torniamo ai due metodo classico, Blanc de Blancs e Blanc de Noirs, che a dire il vero per ora sono tre: il 1919 Blanc de Blancs del 2019 è stato sboccato dopo 36 mesi, ad agosto 2023, invece l’altro del 2016, sboccato a settembre del 2022, oltre i 60 mesi di sosta sui lieviti, non sarà più messo in vendita, quanto meno nel prossimo futuro. Entrambi sono certamente interessanti, pur pensati diversamente perché il 2019 ha un dosaggio di 4 gr/l, mentre il 2016 di soli 2 gr/l, praticamente un brut nature. Differenti per colore, il secondo è ovviamente un giallo paglierino più intenso, con riflessi dorati che all’olfatto, oltre a marcare più decisamente la nota dei lieviti, ha una persistenza di frutta tropicale, inizialmente così spiccata da far pensare a un principio di ossidazione, in verità del tutto assente. Profumi floreali e complessità derivano direttamente dalla vinificazione di varie uve, fra cui ortrugo, trebbiano, sauvignon blanc, chardonnay e anche una parte della santa Maria che sappiamo essere l’uva del Vin Santo di Vigoleno. Il Blanc de Blancs con sosta sur lie di 36 mesi rivela anche una nota minerale e fiori bianchi, nel complesso risultando più tenue, seppure in equilibrio. Entrambi concedono piacevoli bollicine, più vibranti nel primo, cremose e assai fini nel secondo.

Nella vinificazione Fabrizio Illica si affida ai lieviti indigeni per la prima fermentazione, mentre la seconda è controllata da lieviti francesi selezionati. Certamente interessante il 1919 Blanc de Noirs, annata 2020, perché viene vinificato con sola barbera, e sappiamo che è raro trovare un metodo classico da queste uve. Il colore è giallo chiaro, luminoso e con riflessi velatamente oro rosa. L’olfatto fa sognare: persistono note agrumate lievemente acido-amarognole che ricordano un pompelmo giallo, amalgamate con i sentori dell’uva a bacca rossa, mescolando così piacevolmente dettagli di piccoli frutti rossi e prugna viola matura, lasciando infine spazio nel bouquet alla croccantezza dolce collegata a latenze di miele d’acacia. Al palato la nota amarognola del naso riconduce più a un fresco bergamotto, però il risultato di un dosaggio da brut (5 gr/l) arriva nel finale che ritorna morbido, trascinato da una buona persistenza delle bollicine (più in bocca che alla vista). Persistente, con via retro -olfattiva che rilascia ancora un ricordo amaricante che invoglia a bere un secondo calice.

Fleur, ultima etichetta è un Rosé da uve 80% barbera, vinificato con il raro metodo Martinotti a sola presa di spuma primaria; si tratta cioè di uno Charmat lungo (11 mesi) in cui però la CO2 è sviluppata nel ciclo chiuso della permanenza in autoclave diretta, quindi con una sola fermentazione. Metodo che consente di trattenere tutti i profumi primari del vino. Conclude il ciclo un ulteriore affinamento di sei mesi in bottiglia, prima della commercializzazione.

Si presenta di colore rosa decisamente intenso che potremmo definire corallo con nuance peonia, stando alle ultime terminologie delle schede AIS dopo la recente revisione. Olfatto molto fruttato, carico di note dolci e cremose che ricordano la cremolata di fragoline di bosco, ovvero la granita più fine e cremosa che si usa nel messinese. Si fonde con una nota di ciliegia matura, ma anche ribes e viole appena dischiuse. Un dettaglio finale di smalto è l’anello di congiunzione fra naso e bocca, per un palato in cui l’acidità seppure moderata è vincente, a tratti solo corrotta da una lieve provocante e gastronomica compattezza. Sempre con un gusto moderno e intrigante.

Illica è una realtà emiliana contemporanea, lo si vede anche nella scelta delle etichette, dei caratteri e della impaginazione, pur rifacendosi al librettista Luigi Illica, al glorioso periodo del melodramma italiano. Etichette, scelte di cantina, vino e lavorazioni sono il frutto di idee vincenti e tanto esemplare lavoro. Fabrizio e Paolo rappresentano certamente il presente e il futuro delle bollicine nobili emiliane.