di Bruno Civardi
“Sine Libero friget Venus” proclama un personaggio di una commedia di Terenzio: senza Libero, cioè senza vino, Venere patirà il freddo. Una battuta umanamente eterna. Per i nostri antenati latini il vino non era un farmaco sacro, come presso i Greci, che amavano rivestire di religiosità e filosofia ogni cosa, compreso il simposio (anche se poi non disdegnavano di troncare i bei conversari e di fare sesso con le flautiste). A Roma il vino era soprattutto un alimento e un importante oggetto economico. La vite era probabilmente autoctona nella terra di Enotria: ma le tecniche di coltivazione e vinificazione i Romani le appresero, oltre che dai vicini Etruschi, da popolazioni non italiche, come Greci e Cartaginesi. Le impararono bene e, come afferma Plinio, superarono i loro maestri. Avevano il senso degli affari e seppero avviare aziende assai produttive. Le informazioni più dettagliate sono contenute nel De agri cultura di Catone e nel De re rustica di Columella: quest’ultimo è quasi un moderno trattato sulla gestione di una grande azienda dell’età imperiale. La cultura del vino trionfa in Roma con l’avvento dell’impero. Prima poteva essere consumato solo dagli uomini che avessero almeno trent’anni. Guai alle donne sorprese a bere: se il marito, baciando la moglie, percepiva sulle sue labbra odore di vino poteva punirla con la morte. A fini di sorveglianza, anche i parenti maschi del marito presenti in famiglia godevano del medesimo ius osculi, ovvero del diritto di bacio. Il divieto fu infine abolito da Cesare: in tal modo Livia, moglie di Ottaviano Augusto, potrà dire di avere raggiunto una serena vecchiaia grazie al buon vino da lei bevuto a ogni pasto. Cesare era di certo un uomo intelligente, aperto alle novità e alle sperimentazioni: Plutarco ci racconta che, per combattere una infezione che minacciava di decimare le sue legioni, ordinò di distribuire ai soldati vino in abbondanza. In effetti il vino possiede una certa carica battericida e anche per questo non mancò mai nella dieta delle armate romane.
Il trionfo del vino in Roma è anche un fatto letterario. La vite e il vino diventano oggetti poetici. “Ora canterò di te, Bacco”, dice Virgilio aprendo il secondo libro delle Georgiche, l’elegante poema agricolo voluto da Augusto e Mecenate. Esametro dopo esametro, l’autore ci istruisce sui tipi di terreno più o meno adatti alla vite, sui metodi di coltivazione, su come disporre i filari, orientarli e averne cura lungo tutto l’anno. Virgilio ricorda anche le feste della vendemmia, quando “il vignaiolo può cantare di gioia e i contadini scherzano con versi grossolani e risa sfrenate, nascondendo sotto le maschere i loro volti”. Ma aggiunge, con malinconica consapevolezza, che la fatica non è mai terminata, e l’uomo deve sempre combattere contro l’incombente rischio di perdere i frutti del lavoro.
Se Virgilio è poeta del labor, il vero cantore del vino è il suo amico Orazio, il classico e raffinato epicureo che riprende, latinizzandone le forme e lo spirito, la poesia lirica greca. “Nunc est bibendum”, ora bisogna bere: così incomincia una delle sue odi più celebri, composta per festeggiare la morte di Cleopatra e la vittoria di Roma sull’Egitto (che era poi la vittoria di Ottaviano sul rivale Antonio). L’incipit ricalca il greco Alceo, che invitava a ubriacarsi per la morte del tiranno di Mitilene. Nella più bella e perfetta delle sue odi, parlando a una donna di nome Leucònoe, la invita ad accettare il destino e a vivere con serenità l’istante a noi concesso; e in tale istante il vino non può mancare: “… sii saggia: versa il vino e rinchiudi in più breve spazio le lunghe speranze. Mentre parliamo, il tempo invidioso ci sfugge. Cogli l’attimo, non credere al domani”.
La poesia di Orazio trasmette il sentire delle élites. Per ascoltare la pancia di Roma antica dobbiamo prendere il Satyricon di Petronio e partecipare come lettori alla cena di Trimalchione. Lui, ex-schiavo smisuratamente arricchito, nei modi e nella cultura rimane un uomo del popolo. Le sue considerazioni, semplici e grossolane, hanno un sapore di genuinità, forse a noi più vicino: “… portarono anfore di vetro, accuratamente sigillate con tappi di gesso. Sul collo di ciascuna un’etichetta – Falerno del consolato di Opimio, cento anni – Ahimè, esclamò Trimalchione, vive più il vino di noi, poveri ometti. E allora, beviamocelo tutto! Il vino è vita”.
Seneca il Filosofo, vissuto (e morto) come Petronio alla corte di Nerone, esprime con altre parole uguale concetto: “Ogni tanto è bene raggiungere l’ebbrezza, che scioglie l’affanno e guarisce il male dell’anima”. Il vino è vita, sapienza, poesia. Roma docet.