Dalla neo vittoria di Biden negli Stati Uniti alla Brexit, fino alla situazione italiana complicata dai vari dpcm. Il mondo del vino sta attraversando uno dei periodi più difficili della sua storia. Con i nuovi assetti politici che si vanno a comporre si spera nella distensione dei rapporti economici e commerciali per quanto riguarda l’export. Ne parliamo con Valentino Sciotti, amministratore delegato di Farnese-Fantini Group, con sede a Ortona (Chieti), tra le aziende leader nel Sud Italia quanto a volumi esportati, che dopo l’ingresso dei private equity ha conosciuto una crescita continua a doppia cifra, con esportazioni in oltre 80 paesi del mondo. Crescita che non si è fermata neanche in questo annus horribilis grazie alla tenuta dei mercati strategici e all’ingresso nell’off-trade. Il 30 marzo in pieno lockdown è stato firmato l’atto di acquisto da parte del fondo Usa Platinum per 180 milioni di euro, una delle cifre più alte registrate in Italia. Non manca un messaggio di speranza rivolto ai giovani che non riescono a vedere la luce alla fine del tunnel.
Valentino Sciotti, la sua è una realtà vinicola fortemente export oriented. Come legge la vittoria di Biden negli Usa?
L’esito delle elezioni ha un impatto positivo su tutto il mercato mondiale perché si passerà da una politica iper protezionistica a una di mercato e quando c’è tranquillità sui mercati ne beneficiano tutti e a tutti i livelli. Il tempo ci dirà se sarà stata la scelta più giusta che gli americani potessero fare, si sa ancora poco del nuovo presidente per poter avanzare previsioni. Oggi c’è una priorità che vale per gli americani e per tutti noi che siamo confusi e impauriti: arginare la pandemia, sconfiggere il covid. Si avverte la necessità di vedere una via di uscita, e questo vale anche per i ristoratori e gli importatori con i quali mi confronto giornalmente. Detto ciò, la politica negazionista di Trump li preoccupava sicuramente di più.
Nonostante il periodo difficile state pensando a nuovi investimenti?
Il fondo Usa Platinum è uno dei fondi più grandi al mondo, il terzo, e spazia in vari settori. In alcuni si sorride, in altri purtroppo no. In Italia hanno investito nel nostro gruppo e in un’azienda specializzata nell’allestimento delle navi da crociera. Siamo il loro unico investimento nel vino e i prossimi in questo settore verranno fatti attraverso di noi. Puntiamo alla crescita senza cercare di farci influenzare dall’andamento momentaneo del mercato. Se si vogliono i risultati si deve avere una strategia di lungo periodo. Sempre guardare avanti. Abbiamo fatto un investimento in Spagna, in una zona in cui ci sono esattamente le stesse condizioni che avevamo in Abruzzo quando siamo partiti, e stiamo per farne uno importante in Sardegna.
Gli Usa quale fetta del vostro mercato rappresentano?
Esportiamo il 97% della produzione e gli Usa ricoprono il 3% del nostro fatturato, una quota ancora piccola rispetto ad altri paesi in cui siamo presenti, ma con una presenza capillare. La politica dei prossimi tre anni è tutta incentrata sugli Stati Uniti. Ci stiamo avvalendo di un brand manager nazionale con una grande esperienza nel campo dell’ off-trade. Avevamo appena cominciato con l’intenzione di sviluppare il segmento della grande distribuzione, per noi nuovo perché abbiamo fatto sempre ristorazione, solo da un anno siamo presenti in qualche piccola catena. Timidamente abbiamo capito che occorre relazionarsi anche con questa realtà.
L’Italia è per noi come qualsiasi altro mercato da conquistare. Non è mai stata una priorità perché all’estero abbiamo un solo interlocutore che è l’importatore, invece sul fronte domestico, per il tipo di distribuzione, siamo costretti ad avere a che fare con una miriade di micro clienti che volenti o nolenti ci trasferiscono le loro problematiche. Per questo motivo abbiamo sempre puntato di più sugli altri paesi che sul mercato italiano dove facciamo quasi esclusivamente ristorazione con 2,5 milioni di euro di fatturato, ora con tutte le problematiche del periodo che stiamo attraversando.
Quanto ha impattato il covid sulla vostra realtà?
Nel 2019 siamo stati poco sotto gli 80 milioni di euro come fatturato. Alla fine di ottobre 2020 eravamo a +7,8%, con un prezzo medio in crescita. La politica dell’approcciare le catene si è basata su un posizionamento medio-alto che ci ha aiutati. Con la scomparsa della ristorazione tanti consumatori cercavano un prodotto della nostra fascia, ma nelle catene trovavano poco o quasi nulla in questo segmento in cui noi invece eravamo posizionati bene da un paio di anni. Ne abbiamo beneficiato più di altri perché avevamo il prodotto giusto richiesto dal mercato in quel momento. Anche nei mercati più piccoli è andata bene, per esempio la Thailandia quest’anno ha viaggiato a doppio fatturato e all’importatore abbiamo messo in chiaro che secondo noi il vino italiano non può essere ghettizzato nella ristorazione italiana. Dobbiamo rivolgerci a un consumatore che vuole aprire una bottiglia di vino al di fuori del contesto di un ristorante e vuole trovare proprio quella bottiglia e non una australiana. Quindi li abbiamo incentivati a guardare alla distribuzione organizzata e non solo all’on-trade. Abbiamo cercato di convincere il mercato che se a un consumatore quel vino piace al ristorante ancora di più gli piace a casa con amici e parenti.
In quali paesi avete continuato ad esportare?
Gli Usa hanno avuto una contrazione abbastanza netta, invece in altri mercati abbiamo registrato una buona crescita, come in Olanda e in Belgio. In Francia, che per noi è tradizionalmente uno sbocco importante, abbiamo sofferto un po’ perché quando le cose si sono messe male loro sono stati nazionalisti e quindi il consumo di vino italiano si è ristretto. Da sempre la nostra scelta degli autoctoni ci premia, penso al Primitivo, al Montepulciano e al Sangiovese dell’Abruzzo, al Nero d’Avola e al Nerello Mascalese.
Non avete mai creduto nella denominazione…
No, la riteniamo solo la certificazione di un processo e non una reale certificazione di qualità, che per noi è il brand. Se il consumatore dà fiducia a un’azienda è perché ritiene che faccia qualità. Il brand e il vitigno contano. La certificazione se c’è va bene, ma non è l’elemento fondamentale. Il nostro vino più venduto è il Cinque Autoctoni, classificato come vino da tavola, che dopo il Tignanello è il vino nei top di gamma che fa i numeri più grandi nel nostro paese ed è legato a un messaggio di esclusività.
I vostri mercati target?
Germania, Svizzera e Canada. In Canada sono presenti vari monopoli, esiste un federalismo molto spinto, ogni singola provincia ha una politica completamente differente dalle altre. Con il Covid stiamo scoprendo che le catene sono il salvagente cui aggrapparsi. Da tre anni all’estero abbiamo instaurato una politica rivolta all’off-trade, in crescita anno dopo anno, che ci ha permesso di superare brillantemente questo periodo difficile.
Il Regno Unito è un mercato in sofferenza?
Purtroppo è quasi tutta ristorazione. Sta soffrendo tanto e rischia di soffrire ancora se nelle trattative sulla Brexit non si raggiunge un accordo. Di sicuro il protezionismo e lo scontro non hanno mai fatto bene ai mercati, creano un beneficio immediato ma nel lungo periodo sono negativi. Se Biden adotterà una politica di stabilizzazione sui mercati per far crescere l’economia, ma non a discapito di altre economie, sicuramente tutti ne beneficeranno e l’accordo tra Londra e Bruxelles sarà molto più facile.
La sentenza del Wto autorizza Bruxelles ad applicare dazi per 4 miliardi di dollari. Notizia di ieri della Coldiretti è che sono stati colpiti dai dazi al 25% alcuni prodotti alimentari americani con il rischio di includere il vino in una guerra commerciale che non gli appartiene…
Le guerre doganali non portano mai a nulla di buono. Bruxelles ha dovuto reagire e a condizioni stabili li applicheranno. Se invece con Biden si riuscirà a fare un discorso di chiusura con il passato, guardando serenamente al futuro e togliendo ciascuno le proprie barriere doganali sarà un vantaggio per tutti. Gli Usa sono il primo mercato extraeuropeo del Made in Italy. Serve un dialogo costruttivo urgente tra Bruxelles e Washington per evitare uno scontro dagli scenari preoccupanti che potrebbe determinare un effetto valanga sull’economia in un momento già drammatico a causa della pandemia. Nel mondo del vino a essere colpiti in passato sono stati i francesi e gli spagnoli, quindi in un certo senso abbiamo avuto la strada aperta per conquistare qualche spazio in più.
Su quali mercati extraeuropei avete scommesso?
Abbiamo iniziato da dieci una politica di presenza molto importante in Asia e ne siamo stati ripagati bene, abbiamo ottimi trend di crescita. L’Asia è stato il motore che ci ha fatti crescere in questo anno difficile perché nella gestione della pandemia sono stati più bravi di noi. È di questi giorni la notizia di un blocco doganale della Cina ai vini australiani, leader assoluti in quel paese, quindi si riapre un’altra opportunità per noi. In Cina, dove stanno ritornando ad esserci ordini importanti, ci avvaliamo di un brand manager di origini cinesi e italiane. Ci aspettiamo molto da questo grande paese in cui la potenzialità di consumo è altissima ma dove mancano le strutture distributive. Mentre in altre nazioni si può fare un contratto con un importatore nazionale e il giorno dopo il prodotto è distribuito dappertutto, in Cina se si fa un contratto nazionale i prodotti si concentrano in zone limitate.
Se dovesse scrivere una lettera al Presidente del Consiglio quali sono i temi caldi che solleverebbe?
Oggi la prima cosa è essere più determinati nella lotta al covid. Se prendiamo continuamente provvedimenti troppo deboli, rischiamo di tirarci avanti la problematica per mesi e la nostra economia non se lo può permettere, con il risultato che alla fine arriveremo a un lockdown generale. Il mio settore non può rinunciare al mercato domestico per un periodo così lungo. Se teniamo chiuse le attività di ristorazione e di chiunque può commercializzare i nostri prodotti molte di queste persone non riapriranno e si creerà un disastro enorme perché i produttori hanno tante fatture da incassare. Noi vendiamo poco in Italia, ma penso ad aziende in cui questo mercato rappresenta il 50% o più del fatturato. Si andrebbe a creare uno scompenso finanziario che difficilmente potrebbe essere coperto. Vorrei che i fondi europei fossero visti allo stesso modo in cui si vede un sacco da un quintale di riso: se lo utilizzi per seminare un campo soffrirai ancora un po’ ma poi con il raccolto avrai una disponibilità molto grande, se invece te ne servi per mangiare oggi, il sacco si vuota e poi non avrai nulla. Investiamo nell’economia, facciamola ripartire, in particolare nella promozione del vino. Anche l’Iva ai livelli cui è arrivata è un freno enorme e un incentivo all’economia sommersa. Una tassazione esasperata porta purtroppo all’evasione. L’Iva, però, non è il solo problema. Siamo il settore emblematico per quanto riguarda i controlli. Siamo sotto osservazione di dodici o quindici enti che con frequenza assidua vengono da noi e questo significa avere due persone dedicate ogni giorno praticamente a chi mi viene a controllare, il più delle volte controllando ciò che è stato già verificato. Questo non ci aiuta. Dovevamo snellire la situazione con gli erga omnes, in realtà abbiamo peggiorato e creato un altro carrozzone aumentando il numero dei controlli.
Avete avuto una excalation straordinaria, passando dai 68,7 milioni di euro del 2017 ai 75 del 2018 ai quasi 80 del 2019. E quest’anno non è andata così male visto l’incremento registrato…
Abbiamo vissuto sempre di grandi visioni, vedendo opportunità dove gli altri vedevano ostacoli. Tutto parte negli anni ’90. Io oggi sono la continuazione di una storia iniziata allora con altri due amici. Una storia che è un messaggio spero bellissimo per tanti giovani che non riescono a vedere un futuro nel loro paese e fuggono all’estero pensando di trovare condizioni di lavoro migliori. Bisogna sapersi creare nella vita, credendoci, investendo nel proprio territorio. Noi siamo nati con un investimento di poco superiore a 1500 euro, non avevamo soldi. Se ce l’abbiamo fatta partendo veramente da zero e arrivando a fatturare quasi 80 milioni di euro, ce la possono fare tutti. In Abruzzo nessuno investiva perché c’era un frazionamento estremo della proprietà, 1,2 ettari per azienda agricola, con il predominio della cooperazione che raccoglieva quasi il 90% della produzione totale. Questo, però, non gratificava i produttori. Così abbiamo pensato che non fosse importante essere proprietari di un mega vigneto, che avrebbe significato produrre uve industriali perdendo la passione e l’esperienza che si trasmettono da generazioni e che quel vigneto lo fanno rendere al massimo. Abbiamo investito su questo immenso know how culturale. I contadini non sono stati espropriati della loro terra, ma hanno continuato a lavorare e a produrre, mantenendo forti l’attaccamento, l’identità e la storia che portiamo dentro nel prodotto finito, nella sua qualità. Abbiamo cercato di farli guadagnare di più, garantendo loro un futuro. Un discorso diverso dalla cooperativa. E ha funzionato. Mio padre era direttore di una cantina e mi ricordo che allora c’era un enologo per tutta la regione. Oggi solo noi ne abbiamo ventuno di enologi. Ho stravolto il concetto di super consulente, che per me non è chi fa i vini ma è l’allenatore di calcio: chi poi gioca la partita e fa il goal stando tutti i giorni vicino all’uva è l’enologo. Sembrano cose semplici ma non era così allora. Il vino non si può fare per fax, e-mail, WhatsApp, ma vivendo costantemente a stretto contatto con la cantina. Non abbiamo investito neanche nella linea di imbottigliamento e ci avvaliamo di linee altrui, come accade in alcune zone prestigiose della Francia e in Nuova Zelanda, dove fino a due milioni di bottiglie si ricorre a chi fa professionalmente questo servizio alle cantine. In un ristorante per vincere la stella Michelin non è importante essere anche il proprietario dell’orto, del pascolo in montagna o dell’allevamento, ma occorre un grande chef con la capacità di creare da ingredienti di primissima qualità dei piatti che siano qualcosa di ineguagliabile.
Una scelta obbligata per voi in quel momento ma fatta con convinzione…
Proprio così. Dovunque abbiamo investito abbiamo risollevato dei paesini, economie depresse le abbiamo portate a sorridere con un benessere diffuso e tangibile. Quando siamo arrivati nella valle del Belice e abbiamo investito in una cantina sociale che non navigava nell’oro sembrava che stessimo vendendo sogni. Oggi possiamo dire che abbiamo cambiato il destino di quella zona, dove tutti finalmente lavorano la terra sapendo che saranno pagati nei modi e nei tempi di cui hanno bisogno, anche prendendo qualche soldino in più di quello che offre il mercato. In Basilicata abbiamo comprato la struttura di una cooperativa che era fallita due volte e tutt’intorno i contadini avevano cominciato a togliere i vigneti. Oggi, noi, non lo Stato, stiamo dando contributi a chi pianta uve che ci interessano, garantendogli anche dieci anni di contratto con il rendimento minimo. Tante realtà come la nostra nel Sud potrebbero fare una differenza enorme. Il successo di una azienda se fa impresa bene va a vantaggio della collettività. Ecco perché è importante non pensare di controllare tutta la filiera: avremmo una qualità più bassa ed esproprieremmo ciò che è fonte di reddito e di crescita per un territorio intero.
Suo padre cosa le ha insegnato?
Ad amare il mio lavoro, a rispettare e a voler bene alle persone, in particolare a quelle che lavorano con me, non dico per me perché non mi piace. In azienda c’è chi ha quote sociali e ha potuto investire, ma quando si inizia il lavoro il proprietario e tutti i suoi collaboratori sono insieme a inseguire un obiettivo comune. Chi lavora con me porta la mia stessa casacca.