Giancarlo Baruffi, conosciuto nell’ambito di una ricerca storica sul territorio dell’alta Valle Versa, mi invita in cantina a una degustazione. Sartoriale. Made only for me. “Faccio vino, lo sa? Alla mia età non mi interessa il vinello da vendere a basso se non bassissimo costo al primo milanese che arriva. Non avrebbe senso. Sono abituato a studiare i territori, la storia. Viviamo in posti bellissimi e non sappiamo l’origine dei paesi, perché sono sorti propri lì, quali erano le loro connessioni. Surfiamo sui luoghi come sulla vita, non approfondiamo. Io voglio capire fin dove lo Chardonany può arrivare. Sono un appassionato delle cose. Se devo aspettare in cantina un vino lo faccio, se non è l’annata non lo faccio, non mi interessa”. Continua: “Per come la vedo io, o si punta a produrre grandi vini o non conviene neanche piantare un vitigno. Chi vuole arricchirsi lo deve fare con altre professioni. Con il vino ci vuole un approccio culturale, il denaro è semmai una conseguenza, non l’obiettivo”. Giancarlo, che è uno storico, uno dei massimi esperti in Italia di San Colombano, è uno di quelli che sogna in grande, e questo è doppiamente lodevole essendo un piccolo produttore.
Sulle colline di Santa Maria della Versa, a Pizzofreddo, studia cloni, fa ricerca e selezione in vigna, prima di lui il papà in collaborazione con l’Università di Piacenza. Vuole distinguersi per un progetto qualitativo sullo Chardonnay. Ma anche la Barbera merita. E su questi due vini, e vitigni, vuole costruire una narrazione. Mi ripete: “Le voglio far assaggiare uno Chardonnnay a temperatura ambiente. Quanti gradi ci sono oggi?”.
Guardo il termometro fuori dalla porta: segna 20 °C. “Ma è sicuro? Uno Chardonnay a venti gradi?”, replico basita.
“Si fida di me?”. È convinto, determinato, ci crede. Nel frattempo mi parla della via dei pellegrini, testimonianza di un passato che in qualche modo è legato a San Colombano e a Bobbio. Scatta in me l’atteggiamento socratico “Io so di non sapere”. Ergo, mi convinca del contrario. Credo che sia cattiva abitudine sopravvalutare quello che sappiamo. Che comunemente sappiamo. E Giancarlo che, se gli chiedi di San Colombano, arriva a trovarti un suo discendente in Irlanda che in qualche modo ha conosciuto, vale il viaggio.
Per chi non sapesse dell’esistenza di Pizzofreddo, siamo in Oltrepò Pavese, in alta Valle Versa. Un passato romano tardo antico. Da queste parti la storia più significativa l’ha raccontata la cantina La Versa, di cui Giancarlo è stato – per poco tempo – presidente. Ma quella è materia di un altro argomento. Ora non ci interessa.
“Mio nonno mi raccontava che qui sotto c’era una città scomparsa, Rosara. Dai miei studi ho scoperto che è la storia degli insediamenti sarmatici dei deportati”. Ha una memoria storica invidiabile.
Antica Torre, così si chiama l’azienda per via della primitiva torre di tradizione carolingia nei suoi pressi, produce due Chardonnay, due cru, e una Barbera. “A detta dell’enologo di allora Francesco Cervetti, che seguiva anche la produzione de La Versa, si scelse di puntare sullo stesso vitigno del Testarossa Principio, che lui barricava, quindi sullo Chardonnay. I nostri vigneti migliori sono due, uno che ha più di 40 anni e un altro che ci arriva vicino. Le analisi dei suoli sono sempre state determinanti nel frazionare i terreni per vinificazioni separate. Suolo e portainnesto fanno la vera differenza. Non mi ha mai sfiorato l’idea di un vigneto di 20 ettari solo perché è comodo e si fa più in fretta a lavorarlo. Non è questo l’approccio che porta all’eccellenza. L’insegnamento dell’Università di Piacenza, negli anni ’80, è sempre stato un faro per me. Si produce ciò che il suolo può produrre. Noi abbiamo sempre mantenuto l’inerbimento, da più di vent’anni non facciamo diserbo e da quattro o cinque anni la concimazione non è più a terra ma mirata sulla foglia e sul frutto. Produciamo in maniera coerente con le aspettative del terreno. Altro punto fermo, non voglio che ci sia nessun intervento che vada ad alterare le caratteristiche olfattive e gustative del vino, quindi non mi interessa neanche l’utilizzo di quei prodotti detti tannini che creano finali lunghi esaltando le caratteristiche sensoriali. Un vino è buono quando è coerente con se stesso e con il territorio che lo esprime”. Non conosce mezze misure: “Non amo i vini costruiti, non cerco l’opacizzazione, quel livellamento del gusto per cui ogni anno abbiamo gli stessi identici sapori ”.
Si parte con lo Chardonnay Pellegrino 2022, solo 1250 bottiglie. Sull’etichetta un pellegrino in estasi, perché arrivato alla meta, di fronte alla Porta d’Oro di Gerusalemme, oggi murata, che conduce al Santo Sepolcro. Il nome del vino deriva dal fatto che l’azienda si trova affacciata sulla strada provinciale 42 che nel crinale, poi sconfinante in Emilia Romagna, era parte di una strada romana che nell’Alto Medioevo era diventata la principale via di comunicazione da Pavia al monastero di San Colombano di Bobbio, fondato nel 614 per volontà di Agilulfo e Teodolinda grazie al Santo e ai suoi monaci. “Nel nostro vigneto abbiamo trovato testimonianze del pellegrinaggio, fra cui numerose medagliette appartenute ai pellegrini dal 1500 in poi. I pellegrini partivano e non sapevano se avrebbero mai raggiunto la meta. Quando abbiamo iniziato a fare vino ci siamo messi un po’ nei loro panni e ci siamo chiesti se mai avremmo raggiunto l’obiettivo, non scontato, dell’eccellenza, che è la nostra Gerusalemme, o se, al contrario, ci saremmo persi per strada avendo sopravvalutato le nostre ambizioni e possibilità. Intanto, come i pellegrini, ci siamo messi in viaggio”.
Nell’annata 2022 lo Chardonnay Il Pellegrino è un all in one dei due vigneti quarantennali che nell’anno precedente erano stati pigiati separatamente (“i due vigneti non sono stati divisi a causa di una grandinata che ha portato via quasi tutto il raccolto”). Il Pellegrino non ha svolto la fermentazione malolattica, una scelta del produttore per tenerlo più fresco e minerale (“non volevo il vinone”). Infatti la bevuta verticale lo fa apprezzare non solo su piatti da portata.
Un curiosità: “L’anno scorso in etichetta riportavamo anche la scritta Sha’har Adonay. Chardonnay è il nome di una località francese, nella Borgogna. Dai miei studi ho rinvenuto che non c’erano tracce di esistenza di questo luogo prima della metà dell’XI secolo, fatto piuttosto curioso. Chardonnay come parola francese assomiglia all’ebraico Sha’har Adonay, ossia “porta” e “Dio”, la porta di Dio. La Porta d’Oro raffigurata sull’etichetta è la porta dove avvenne l’incontro tra Gioacchino e Anna, padre e madre della Madonna, e dove Gesù Cristo quando ritornerà nella sua gloria passerà a giudicare i vivi e i morti. I musulmani l’hanno murata pensando in questo modo di fermare l’arrivo del Messia, che loro non riconoscono come figlio di Dio ma come profeta. Quindi, un vitigno portato dai pellegrini o dalle crociate? Non è escluso, perché diversamente non si capisce come mai abbia preso il nome da due parole ebraiche.
Nel 2021 sono, invece, due gli Chardonnay, stavolta entrambi con malolattica svolta: da un vigneto del 1985 e da uno del 1980, rispettivamente Il Pellegrino Sha’har Adonay e un barricato, Il Santo, quest’ultimo da vigna vecchia di 42 anni con un quarto della vigna di 38 anni. A stupire è il secondo, avvolgente nei suoi ricchi e continui profumi che sembrano rincorrersi, uno Chardonnay che dà il suo meglio – userò una parola odiata – a temperatura ambiente, ossia a 20 °C! “Quest’estate a 27 °C era buonissimo. Abbiamo una vigna che produce tre quintali massimo quattro la pertica, la resa è al 50% e non al 70%. Quando si parte con una produzione al di sotto della metà di quella ritenuta di sopravvivenza da tutti, non ci si può non trovare davanti a una base straordinaria”.
Altra bella bottiglia è la Barbera Il Sarmata 2021, da vendemmia tardiva, da vigneto sui 400 metri slm, da un clone particolare “che produce poco” e da uva raccolta “sulla base di grappoli spargoli, solo ventidue casse, circa otto quintali di uva”. Fatto alla maniera dei Sarmati che 1700 anni fa popolavano questa terra. “Le uve le abbiamo pigiate con i piedi e diraspate a mano per la massima sostenibilità. Tutte le operazioni fino all’imbottigliamento sono state eseguite manualmente: i travasi aspettando la luna, e ogni volta si buttava via una secchiata di feccia, senza filtri e in modo naturale, con una perdita importante di vino. Alla fine l’imbottigliato è risultato inferiore al 50% delle uve pigiate. Tradotto: solo 400 bottiglie, di cui 300 da vino messo in barrique, ciò che restava in vasca è stato invece unito con la tecnica all in one”. Una Barbera che ha svolto la malolattica l’anno dopo, a fine maggio, raggiunta la temperatura ideale di 26 °C”. A seguire, è stata messa in una barrique di secondo passaggio – dove era precedentemente maturato lo Chardonnay – fino a dicembre. L’anno scorso, invece, è grandinato e non l’abbiamo prodotta”.
Il colore è vivo e al naso è un vero tripudio di profumi, con frutto croccante à gogo che ritorna al palato sostenuto da un’ottima acidità. “A me un vino deve trasmettere emozione”, ci tiene a sottolineare. “E deve avere una storia da raccontare”.
Tornando allo Chardonnay, è una grande uva ovunque venga piantata da un produttore intelligente. “Oggi bisogna andare oltre la qualità e parlare di eccellenza. La qualità ormai la fanno in tanti. L’eccellenza no”, conclude.
Ma l’eccellenza, parola oggi abusata, è di quei produttori che ancora collegano testa e cuore. Il resto, diciamocelo, è bluff.