Il 18 marzo, al Teatro Regio di Torino, la Prima dell’Alta Langa accenderà le luci su un territorio che nel suo insieme in pochi anni ha saputo spingere sull’acceleratore della qualità: se, quando nasceva l’Alta Langa, la forbice tra chi produceva già ottimi spumanti Metodo Classico e chi stava ancora tentando di trovare la sua strada era evidente, oggi non è più così evidente.
Partecipiamo a una degustazione in cantina, per pochi selezionati amici (di quelle fatte per confrontare le idee), organizzata da una piccola, direi artigiana realtà fra Langa e Monferrato, sulle colline che guardano Canelli: poche cose ma fatte bene, politica dei piccoli passi, vini puliti, precisi, giocati sull’eleganza, di qualità e finezza espressiva. Ciascuno racconta una sua storia, diversa dagli altri ma con radici comuni nel territorio (e qui ti proietta inequivocabilmente).
Ovviamente si parte dall’Alta Langa per poi sconfinare su altre tipologie di prodotto fino alla Barbera, o meglio le Barbere. Vera superstar lo Chardonnay, che in questo angolo di Piemonte ha una tradizione addirittura risalente a Napoleone. È uno Chardonnay di grande personalità: non aspettatevi il gusto internazionale omologato di certi Chardonnay “piacioni”. Questo parla piemontese, è imbevuto di territorio già prima di nascere e in cantina il suo carattere non viene appiattito ma valorizzato. “Chi ci sceglie è alla ricerca di qualcosa di particolare, che può bere solo qui e in nessun’altra parte del mondo”, spiega Gianmario Cerutti, tra i fondatori della Fivi. La sua azienda, Cascina Cerutti, già dal nome ti fa capire che il vino è la forma mentis (e culturale) del produttore (in questo caso anche enologo).

Ma procediamo con ordine. L’Alta Langa, che viene prodotta dall’azienda solo nella versione Cuvée Enrico Cerutti Brut, da Pinot nero e Chardonnay vinificati separatamente e poi uniti per realizzare la cuvée di tiraggio per la seconda fermentazione in bottiglia, sosta 30 mesi sui lieviti (i magnum sono invece degorgiati a 36).
L’ annata 2020 è un brut con 4 grammi di residuo zuccherino che non si percepiscono, o meglio la accompagnano stondando qualche spigolosità ma senza banalizzarla e senza modificarne la verticalità dovuta alla magnifica acidità rinfrescante e al ph (altro parametro fondamentale perché esprime la “forza acida”) leggermente più basso (tendente al 3). Oserei dire un Alta Langa intellettuale, giocato sulla freschezza e con un ampio range di abbinamenti, che rispetta la personalità e la cifra stilistica del territorio. A quanto ci anticipano è in itinere un secondo Metodo Classico. “Stiamo affinando il nostro nuovo progetto, un Alta Langa Riserva che uscirà tra qualche anno, dopo un affinamento di almeno 60 mesi, il doppio della cuvée in commercio ora, in cui lo Chardonnay avrà una importanza molto marcata”, continua Cerutti.

Passando al secondo assaggio, il Cortese dell’Alto Monferrato 2022 (primo vino imbottigliato ad aprile) è di grande pulizia e precisione nella sua interpretazione classica. Un vino quotidiano di ottima bevibilità e senza sbavature. Definito vino d’entrata. Da bere a tutto pasto finendo la bottiglia (da provare la combo con asparagi). Un bianco che “alleggerisce” e fa pensare al vento primaverile quando sparge il profumo dei fiori di campagna tra i filari.

Ambasciatore a sorpresa del territorio è lo Chardonnay. Il Riva Granda 2019, da single vineyard a 400 metri slm, nel punto di intersezione tra Langa e Monferrato, è un vino che tira fuori il terroir proprio come il Pinot nero, ovviamente se il vitigno trova le sue condizioni di adattamento. Un vino pronto che dà grande soddisfazione: profumi ricchi ma al tempo stesso eleganti e un palato dove struttura, corpo, avvolgenza e freschezza si danno il braccetto con un equilibrio che si traduce in un’armonia del sorso non semplice da giocare sul filo dell’eleganza.
In degustazione tre Chardonnay: annata 2015, due 2018 con tappi diversi, sughero e tecnico, e la 2019. Un vino che l’azienda produce dal 2008 (“quando la vigna era pronta”), fatto per invecchiare nel tempo, che inizia la fermentazione in acciaio e la finisce in barrique di più passaggi (“perché conta l’ossigenazione”), dove sosta per nove mesi sulle fecce di fermentazione prima di riposare in bottiglia per due anni e mezzo.
Si parte in vigna, da grandi uve raccolte nel momento magico della perfetta maturazione, con il risultato che lo Chardonnay evolve senza subire i danni dell’ossidazione, mantenendo ricchezza di profumi, complessità gusto-olfattiva e freschezza, sinonimo che il vino non sta “cadendo”. Nella 2015 il naso ha bisogno di aprirsi, come se fosse un rosso, per regalare ancora emozioni: qui a entusiasmarmi di più è il palato. Se la 2019, di aromaticità fine, è un cerchio perfetto dove tutto è in equilibrio, la 2018, con la sua freschezza più tagliente è da dimenticare in cantina: la chiusura tecnica (che fa passare meno ossigeno) regala uno Chardonnay con più prospettiva di vita; il sughero restituisce un vino sempre verticale e di grande slancio ma con un’evoluzione maggiore a parità di annata. “Lo Chardonnay nelle interpretazioni sia del Metodo Classico sia del vino da invecchiamento ha dei risvolti molto interessanti nella Langa Astigiana, dove sabbie fini e limo sono predominanti, secondariamente argilla e una presenza di marna calcarea e scheletro, e dove le escursioni termiche portano aria fresca di notte, tutti elementi adatti a regalare eleganza, freschezza e verticalità”, spiega.

L’essenza dei rossi aziendali è ad Agliano Terme. Qui cambia la geologia: argilla, limo e poca sabbia, colline più basse (250 circa metri slm), valli ampie che la notte rinfrescano meno. Terreni e temperatura conferiscono struttura, facendo maturare la parte polifenolica: è questa la patria della Barbera. ”Gli strumenti di cantina, come barrique e vasche, servono solo per far esprimere il vino ma non compromettono l’ identità di territorio”, racconta.

Il Nizza nel bicchiere è indubbiamente un vino più impegnativo, un cru da vigne vecchie e rese più basse della Barbera d’Asti, da uva raccolta quando le foglie iniziano a rosseggiare (“è l’ultima vigna che viene vendemmiata, da qui il nome Föje Rùsse”), con una macerazione di quasi due settimane dove si va a estrarre potenziale tannico e struttura che dovrà essere integrata nel lungo affinamento post fermentativo, non solo in acciaio: la Barbera resterà in legno per 12-14 mesi, per poi riposare più di un anno in bottiglia. Un Nizza da godere anche come vino da meditazione: cosa impensabile qualche anno fa riferendoci a una Barbera.

La Barbera d’Asti  2021 nella sua interpretazione classica che fa solo acciaio, blend di due territori (Agliano e Canelli), è la tipica espressione pura del vitigno. Chi ama questo vino lo riconoscerà già al naso e ne apprezzerà al palato la vena sapida che porta continua salivazione e l’acidità che lo rende scalpitante ma non tagliente perché ben equilibrata dalla croccantezza del frutto non arrivato a piena maturazione, su tutti l’amarena.

Il sunto: sono vini che fotografano l’annata e il terroir, anche nelle versioni più impegnate. Mi sento di dire che all’assaggio il terroir prevale sul vitigno, che è solo lo strumento attraverso cui è interpretato il territorio. Il sorso si connota, così, di unicità, perché se il vitigno è replicabile, i luoghi non lo sono altrettanto. Sono vini che si portano dietro una geografia precisa, storia e tradizione. E famiglie che li rispettano. Sono questi i profumi primari che vogliamo trovare. Oggi e sempre.