Sono andato in enoteca. Prendo in mano una bottiglia, cerco di leggere l’etichetta scritta in caratteri corpo 3 quando vedo che si avvicina l’oste (chissà se si chiama ancora così), con un sorriso beffardo. E qui, pardon, devo fare un inciso: magari mi sbaglio, ma da qualche anno mi sembra che i titolari delle enoteche si muovano tra le bottiglie come dei sacerdoti di un culto esoterico segretissimo. Scegli un vino e loro ti soppesano con lo sguardo, quasi a dire «Eh, mica lo so se ti vendo quel Brunello. Convincimi che ne sei degno». E una volta alla cassa, se ti azzardi a completare la spesa con un vasetto di ragù di cinghiale che sta lì in bella mostra, e visto che costa come una Panda accessoriata chiedi «Ma è buono?» loro, facendo platealmente affidamento a tutta la loro pazienza, cominciano a raccontarti la storia di quel ragù, anzi proprio del ragù che sta nel vasetto che hai in mano. Sanno il nome del cinghiale che è sepolto li dentro, sanno cosa mangiava, che film preferiva e qual era il suo romanzo del cuore. Ti raccontano dei parenti del cinghiale, della sofferenza di mamma cinghiala quando lui sembrava aver preso una brutta strada infatuandosi di una maialina della fattoria etc etc. Insomma, per alcuni titolari la loro enoteca è un tempio e i clienti si accettano solo se hanno abbastanza fede. Ecco, però eravamo rimasti che ero in enoteca con una bottiglia in mano. Vedendo arrivare l’oste lo anticipo chiedendogli, quasi per imbarazzo «Non conosco questa etichetta, com’è?». Lui mi risponde come risponderebbe a un venusiano: «È biodinamica». Senza accorgermi di peggiorare la mia posizione ribatto «Bio!». Lui scuote la testa «No. Biodinamica. Steiner… le dice niente? Si fonda sulla conoscenza delle forze che governano gli esseri viventi, con attenzione agli astri, affinché siano in connessione col terreno». Fa per andarsene, scuotendo la testa, incredulo che al mondo esistano zotici come il sottoscritto, e che uno sia entrato nel suo tempio. Io però ormai sono affascinato da questo mago Otelma del rosso: «Anche questa è biodinamica?» gli chiedo, con in mano una bottiglia di un vino del Lazio. Lui mi guarda scoraggiato: «Questa è prodotta con vigne curate con metodo olomeopatico, immagino che lei non lo abbia mai sentito questo termine…». Prima che possa rispondermi mi racconta che ci sono vignaioli, che grazie a una sapienza antica come l’Anello di Sauron, curano le loro vigne grazie all’omeopatia, ma in una prospettiva olistica del tutto, ricercando l’equilibrio superiore tra parassiti, grandine, bestemmie e vendemmia. Alla fine sono uscito dall’enoteca a mani vuote, senza nemmeno il ragù fatto con un cinghiale che aveva fatto l’Erasmus alla Sorbona di Parigi. Magari quelle bottiglie erano eccellenti, ma poi ho pensato a un viaggio in Puglia, qualche mese fa. Correvo in moto a sud di Lecce ed era una distesa di ulivi scheletrici, morti o moribondi. Mi sono ricordato di quelli che non volevano abbatterli quando sarebbe stato necessario, di chi invocava le fasi lunari, le forze della natura, i medicamenti naturali e biodinamici. E per quel disastro nessuno pagherà mai, quantomeno vergognandosi di ciò che diceva. Mentre mi tornava in mente quel disastro mi passava la voglia di riempirmi il bicchiere di queste pseudoscienze che innocue davvero non sono mai.