“Il miglior investimento? In rapporti umani e passione etica, che stanno imprescindibilmente alla base di un grande vino e allontanano il rischio di perdita di identità culturale”. Alessandro Gallo, piemontese di Acqui Terme, direttore generale ed enologo (dal 2004) del Castello di Albola, non ha dubbi sul reale valore di una azienda, che va oltre il dato commerciale. Parole con un peso specifico, che mi riportano alle pagine di Zygmunt Bauman lette qualche giorno prima, a quel nostro vivere in una “società liquida”, per usare il termine coniato dal famoso sociologo polacco. Ecco, niente è più lontano dal Castello di Albola, a Radda, una delle zone più vocate del Chianti Classico. Un microcosmo dove si autoproduce (quasi) tutto, dove natura e cultura sono in equilibrio sostenibile, dove la vita medievale del borgo con il suo ritmo lento sembra prendere il sopravvento.
Albola che nei prossimi dieci anni farà un ulteriore salto qualitativo in avanti grazie al rinnovamento del parco vigneti, terminato ora. “Siamo già al secondo rinnovo da quando l’attuale proprietà ha acquisito l’azienda alla fine degli anni ’70, un fatto di per sé straordinario”, spiega Gallo.
Attenzione e sensibilità ambientale in un’ottica di sviluppo sostenibile. “Siamo a 600 metri di altitudine, con vigneti dai 450 metri a salire. Il rinnovamento ha comportato anche una selezione clonale pensata proprio per un territorio così elevato. Sono stati rinnovati i sistemi di allevamento e dal cordone speronato si va verso il guyot. I sesti di impianto sono più fitti per una minor produzione di uva per pianta”.
Albola, poco meno di 900 ettari, di cui 125 vitati e una dozzina a ulivo, il resto è bosco: querce, castagni, pini e qua e là, quasi a incidere il paesaggio, ordinati cipressi. Questo dato ci dà il metro del grande rispetto per l’ecosistema, e quindi per la vita. Thoreau parlava di bosco come miglior cura per il futuro. Bosco che non è una semplice cornice ma una seconda pelle, un polmone verde che genera una straordinaria biodiversità nel Chianti Classico, su questo altopiano a cavallo tra le province di Firenze e Siena con altitudini che oscillano tra i 200 e gli 800 metri slm. Al Castello di Albola siamo in uno dei punti più alti delle colline chiantigiane, fattore che regola la tessitura del suolo e la temperatura atmosferica media e che, unito alla brezza e all’escursione termica, marca il vino regalandogli una verve acida che lo connota in maniera elegante. La freschezza fa da piacevole contraltare al frutto, che in bocca si sviluppa in un gioco sinuoso di fragranze.
Radda in Chianti è una delle undici unità geografiche aggiuntive (Uga), indicanti in etichetta il nome del borgo o villaggio, in cui è stato da poco suddiviso il territorio di produzione del Chianti Classico. Sono suoli principalmente di galestro con alberese e in alcuni punti la buona dotazione di argilla permette un perfetto equilibrio tra drenaggio e ritenzione idrica. Qui, nel Sangiovese, è il territorio che si fa sentire sulla varietà.
Da una terrazza naturale si domina il vigneto Santa Caterina, poco più di quattro ettari di verde magnetico che riempie gli occhi.
“Il valore umano, il cosiddetto human touch, è fondamentale. Ci sono posti bellissimi ma senza personalità, senza anima. Succede anche nei vini”, spiega Gallo. “Nella proprietà, intorno al borgo, si sviluppa una rete di poderi che fa parte del tessuto chiantigiano. Sono le abitazioni delle maestranze, vero presidio del territorio, che qui vivono e si recano al lavoro a chilometro zero. Le nostre sono zone isolate dove l’estate è bella ma poi arriva l’inverno e avere persone che vivono vicino a te crea comunità, senso di appartenenza, radici. Questo è stato uno sforzo economico per la proprietà e gliene rendo merito. Due sono i paletti che mettiamo: professionalità e familiarità, un intreccio che crea un plus indiscutibile”.
Il 90% della produzione è Chianti Classico, per un totale di circa 4.500 ettolitri, tradotti 600mila bottiglie e poche etichette per mantenere una linea identificativa senza sbavature, con un 20% di mercato Italia, il resto è estero: target Usa, Germania, Svizzera, Uk e in crescita il Canada. “Abbiamo anche due Igt, uno Chardonnay (tra i vigenti più alti del Chianti Classico, ndr) e un Cabernet Sauvignon, l’Acciaiolo, prima annata la 1988. Il Vin Santo è, invece, una chicca che teniamo a maturare nei caratelli da 150 litri per diverso tempo, basti pensare che ora in commercio abbiamo la 2009”. Continua: “Il Vin Santo è un grande vino dolce passito da uve malvasia bianca e trebbiano toscano, che purtroppo non ha l’onore che meriterebbe perché è stato scimmiottato da copie non all’altezza del suo nome che ne hanno tradito la direzione. Vorrei riportarlo in auge, anche perché i nostri clienti quando lo assaggiano qui da noi in enoteca lo trovano straordinario per il suo equilibrio tra dolcezza e acidità”.
Il sangiovese è l’anima del territorio e per Albola, che lo vinifica in purezza, è l‘anima del Chianti Classico. “Spesso e volentieri si parla dei vini di Radda come di vini magri. Magari a volte gli manca un po’ di centro bocca, ma hanno molta tensione verticale e una buona combinazione di tannino e acidità, che porta con sé la bevibilità”, precisa Gallo, che non amando essere banale nei discorsi mal sopporta l’equazione sasso e mineralità. “È passato il tempo dei vini troppo concentrati, che spesso restano nel bicchiere. Quelli di Radda sono gastronomici e ben abbinati a tavola danno più soddisfazione che bevuti da soli”.
Sono vini di vigna, dove la mente è soprattutto nel vigneto. Vini dalla vinificazione semplice: fermentazione malolattica, ricorso a botti grandi e tonneau per lo stretto necessario, la barrique viene usata solo per il Cabernet Sauvignon. “Produciamo cinque etichette di Chianti Classico, ma non mi piace pensarle con una identificazione piramidale, preferisco immaginare un cerchio dove ogni vino assolve una funzione. Il Chianti Classico annata è numericamente la nostra produzione maggiore. La riserva, invece, è il frutto della selezione delle nostre vigne migliori, che vinifichiamo in lotti separati per poi a gennaio comporre il blend. Il legno va bene finché non si sente. Certi tipi di vino ne hanno bisogno perché aumenta la densità, la polimerizzazione dei tannini, la micro ossigenazione, ma abusarne potrebbe causare storture del bouquet. Oggi il vino rosso deve tendere al frutto croccante, essere fresco e quindi bevibile. La botte grande è più rispettosa del frutto e si sposa meglio con il sangiovese, varietà principe di questa terra”.
Fiore all’occhiello la Gran Selezione. “Nella storia di questo luogo sono nate tre vigne che hanno dato alla luce tre Chianti Classico single vineyard che definiamo delle grandi selezioni. Sono vini con una identificazione di territorio forte. Il Solatio, prima annata la 2006, è un Chianti Classico fine, delicato, speziato, dritto, ricavato da un solo ettaro di vigneto di sasso puro. Gli altri due single vineyard, concepiti successivamente, sono il Santa Caterina, che ha un clone diverso di sangiovese, francese, che regala note più fruttate rispetto al Solatio e un carattere più internazionale, e Le Marangole, l’ultimo nato, per ora in commercio solo qui in castello, un vino frutto di una sperimentazione che non ha solo la peculiarità del vigneto ma anche del contenitore, l’anfora”.
Lo Chardonnay Poggio alle Fate, di cui abbiamo degustato l’annata 2017, è in una fase intermedia del suo divenire. “Lo Chardonnay è nato nel 2005 e allora usavamo solo l’acciaio, senza svolgere la malolattica, quindi acidità pura, tagliente nel bicchiere. Oggi mantiene sempre un’ottima freschezza acida derivante dall’altitudine e dai terreni di galestro, di terra rossa, ma usiamo il legno, che gli dà spalla, e svolgiamo la malolattica, che gli conferisce un po’ di volume”, spiega.
Dell’Acciaiolo, che porta il nome degli antichi proprietari del Castello di Albola, la casata degli Acciaiuoli, Gallo crea una verticale su misura dal 1988 al 2018, cui ho avuto il piacere di partecipare insieme al master of wine Gabriele Gorelli. Un tasting che ci ha fatto capire che questo vino, inizialmente con un’aggiunta di sangiovese, successivamente cabernet sauvignon in purezza, ha bisogno di almeno quindici anni sulle spalle per esprimersi al meglio. Le annate più interessanti? La 2004 e la 2009, leggendo in prospettiva la 2016: di struttura, nervo, longevità assoluta. “È un vino che non si produce in tutte le annate perché il cabernet sauvignon ha qualche difficoltà di maturazione a Radda”.
A proposito del biologico, conclude: “Siamo certificati bio, ma sono anni che usiamo tecniche non invasive. Nel Chianti Classico non si può non rispettare il territorio, basta guardarsi intorno per capire che è un dovere. Vedere le vigne ingiallite dai pesticidi non farebbe onore a questa terra. Noi da qualche anno siamo all’interno del protocollo Equalitas, che misura il livello di sostenibilità di una azienda con controlli specifici di carbon e water footprint. La biodiversità in vigna è il termometro di come ci si comporta verso l’ambiente ed essere bio è un aspetto di questo percorso. Ci vuole maggior attenzione verso le piante, dobbiamo aiutarle a diventare più resistenti, reattive alle malattie, facendo in modo che tirino fuori il meglio da sole. Una pianta non trattata sarà una pianta più sana, i vini avranno residuo zero e anche il loro gusto sarà diverso. Bisogna soltanto avere pazienza perché il tempo di risposta della vite è lungo”.
La qualità del paesaggio e dell’ambiente non è considerata un lusso, ma una necessità che deve essere accessibile a tutti, il miglior investimento sul nostro futuro.