Quando l’arte di fare vino si intreccia con la storia, quella mineraria. È il 4 maggio 1954 e un’esplosione alla cava, che passa alla cronaca come la tragedia di Ribolla, porta alla straziante morte di 43 minatori. Oggi la miniera a memoria è un luogo che spiazza, e invita alla riflessione: su una targa restano scolpiti i nomi dei lavoratori nel punto preciso in cui furono ritrovati i corpi. Poco lontano i carrelli dei minatori sembrano sgorgare dalla terra, tutt’intorno un cipresso per vittima completa il suggestivo monumento commemorativo, a Pian del Bichi.
Siamo nella zona pedecollinare di Montemassi, sulle ultime propaggini delle colline metallifere. I vigneti sono immersi in una riserva di caccia dalla ricca fauna selvatica. Inizia qui, in questa terra assolata, gelosamente custodita dai butteri, il nostro viaggio in Maremma, che ci ricorda quel Traversando la Maremma toscana di Giosuè Carducci. Rocca di Montemassi è un’azienda agricola che raccoglie, non senza un tocco country chic e il romanticismo scandito da un laghetto interno che fa da cornice alle degustazioni, il tipico spirito della wine farm maremmana, un microcosmo dove animali persone e ambiente sono in armonia in un’ottica di economia circolare e sistema sostenibile a filiera corta. Senza tralasciare il dettagliato Museo della Civiltà Rurale, progettato dal professor Mauro Zocchetta, docente all’Accademia di Belle Arti di Venezia, dove salta all’occhio la grande artigianalità dei vecchi attrezzi agricoli, oltre tremila pezzi dal 1700 alla II Guerra Mondiale.   

                                                                               

L’azienda si estende per 430 ettari, di cui circa 170 vitati (con certificazione Equalitas), suddivisi in diverse varietà, e una trentina di bosco che assorbe l’anidride carbonica. In vigna luce, escursione termica tra giorno e notte, brezza temperata dal mare, forme di allevamento che mantengono in equilibrio l’apparato fogliare per l’assorbimento di una maggior energia luminosa. Una terra incastonata in una macchia mediterranea che filtra tutte le esperienze. Una terra di grande forza, intensità, a tratti irriverente, mai uguale a se stessa, dove la vigna e il vino sono parte di un contesto produttivo e naturalistico più ampio. Alla viticoltura si affianca l’agricoltura vera e propria, con coltivazioni di farro, orzo, grano duro da cui si ricava la pasta, ma anche di lupino, trifoglio, favino da sovescio che apporta sostanza organica e azoto al terreno.
“Questa terra diventa in qualche modo complice dell’attività viticola. Agricoltura sostenibile ed economia circolare sono un plus per il cliente finale. Il seme del favino che si produce nei campi viene poi piantato nel vigneto in regime di agricoltura biologica e sarà il responsabile del suo nutrimento. L’utilizzo del sovescio aumenta la fertilità del terreno”, spiega l’enologo Alessandro Gallo. “Non utilizziamo prodotti fitosanitari di sintesi. Combattiamo la tignola con il disorientamento sessuale, un metodo naturale”. Continua: “Abbiamo anche un sistema di raccolta delle acque piovane che alimenta una vasca utilizzata per l’irrigazione di emergenza in modo da prevenire i periodi più siccitosi”.
Non solo per business ma anche per passione, l’introduzione degli allevamenti zootecnici distensivi a tutela della razza autoctona quasi in via di estinzione, come quello dei suini di razza Cinta Senese, allevati fin dagli Etruschi, e della prestigiosa vacca maremmana. “Ne abbiamo una quarantina, addomesticate dal nostro buttero Alessandro Seminara, più un toro, Fiume, che ormai qui da noi è una leggenda. Il nostro gin prende il nome dal primo figlio maschio di questo toro, Imperiale. Imperiale era un torello che non fu assegnato in nessuna asta, così un nostro agente di commercio vegetariano, per far sì che non venisse ucciso, fece una scommessa: se avesse venduto tante scatole di gin da coprire il valore del toro, lo avremmo dovuto lasciare in vita. E così fu”, racconta Gallo.
Si affianca una piccola produzione di olio, di miele millefiori e di marmellate da uva sangiovese. Più un orto sperimentale in soccorso dell’agriturismo.
In cantina si va dal Vermentino al Viogneir, dal rosato ai blend di Maremma: poche etichette, tanto territorio e riconoscibilità nel bicchiere. Sono vini che non arrivano da forzature del vigneto o da esasperazioni enologiche, ma prima di tutto da una grande attenzione nella fase della raccolta per evitare il rischio di sovramaturazione e mantenere sempre bilanciate concentrazione, freschezza e struttura. “Questi vini nascono in una zona calda ma vicina al mare. Cerchiamo di preservare freschezza, eleganza e bevibilità. Non sono né troppo alcolici né concentrati. L’estrazione dolce ci aiuta ad ottenere corpo e volume maggiori rispetto ai Sangiovese del centro Toscana, senza perdere l’equilibrio tannico-acido. Siamo molti attenti a questo aspetto”, spiega Gallo.
Core business della produzione è il Vermentino, che in Maremma trova una sua identità di freschezza, sapidità e mineralità. L’altro vitigno a bacca bianca è il viognier, una scommessa che dà vita a un vino con una concentrazione maggiore, dove il legno gioca la sua parte rendendolo più strutturato. “Il nostro rosato, il Sirosa, è figlio della macerazione del syrah. È un rosato di vigna, ossia nasce in vigna con l’idea di fare proprio un rosato, non proviene dalla lavorazione particolare di un rosso. Mantiene acidità, basso grado alcolico, freschezza”, continua.
In azienda si coltivano anche cabernet sauvignon, cabernet franc, syrah, petit verdot, merlot. Nei rossi tre le etichette: Le Focaie, Sassabruna e il cru aziendale Rocca di Montemassi “Le Focaie è un rosso fresco, da bere giovane, che vede la partecipazione del sangiovese, al 50 per cento con gli internazionali, che lo rende più smart, più facile da bere. Gli altri due blend sono di stampo internazionale. Fanno tutti legno. Le Focaie, la produzione maggiore, passa in botte grande. Il bordolese Rocca di Montemassi è la selezione delle vigne migliori di petit verdot, syrah e cabernet sauvignon. Ciò che durante la selezione non finisce nel primo vino, va a comporre il Sassabruna”, conclude.
Sono vini con un potenziale, vini bianchi che parlano di Maremma ma che al tempo stesso non ti aspetti per la loro precisione. Senza trascurare il gin Imperiale da sei botaniche della macchia mediterranea, fresco, leggermente aromatico, al bergamotto, ginepro, rosmarino, alla camomilla e curcuma.
Un approfondimento che ci ha fatto conoscere il carattere sincero della maremma, dei suoi personaggi e delle tradizioni che connotano il territorio e alle quali i maremmani continuano a dare un valore.