Trasferire sempre di più il territorio dentro la bottiglia. Al Mudec la presentazione delle unità geografiche aggiuntive (UGA) del Chianti Classico, che rientra in una strategia di valorizzazione della denominazione, e di conseguenza di maggiore remuneratività del lavoro dei viticoltori. A giorni si attende la delibera della Regione Toscana di approvazione del progetto, poi bisognerà attendere il decreto del ministero dell’Agricoltura con l’autorizzazione a scrivere in etichetta il nome del villaggio di appartenenza, il luogo fisico da dove le uve del vino provengono, che si spera arrivi il prossimo luglio quando la Gran Selezione 2019 uscirà sul mercato. Undici nuove unità geografiche aggiuntive che inizialmente accompagneranno solo la Gran Selezione e che segnano una svolta epocale sul territorio. Un percorso valoriale che porterà a un diverso posizionamento delle bottiglie sul mercato. Gran Selezione che copre più o meno il 6% del Chianti Classico, generando per la denominazione un fatturato del 16%, tradotto sono due milioni di bottiglie per un totale della produzione che a fine 2021 si dovrebbe attestare sui 36-37 milioni. “Sono circa 150 le cantine che imbottigliano la Gran Selezione su 342 imbottigliatori e su un totale di 480 aziende, quindi quasi la metà. La Gran Selezione la può fare solo chi conduce il vigneto, chi ne ha la proprietà o comunque l’affitto, un modo per dare più valore al frutto del lavoro del viticoltore”, spiega Giovanni Manetti, presidente del Consorzio del Vino Chianti Classico, che rappresenta il 96% delle aziende socie. “L’intento è estendere il progetto anche alle altre tipologie. Entro tre anni al massimo verrà riportato in assemblea il tema dei rischi e dei benefici dell’estensione alle altre tipologie, ma ormai sarà un percorso inevitabile. In un futuro neanche tanto lontano tutte le bottiglie del Chianti Classico porteranno questa indicazione importantissima in etichetta”. E poi il tema delle rese che dà ancora più valore al lavoro intrapreso. “Nel Chianti Classico si possono produrre al massimo 52,5 ettolitri a ettaro, ossia 75 quintali di uva, con una produzione effettiva che è ancora più bassa, meno di 40 ettolitri, a confronto Barolo, Brunello, Bolgheri ne possono produrre molti di più”, sottolinea.
Chianti Classico che ha messo a segno +20% sul 2020 e +10% sul 2019, dato che fa capire, come sottolineato dal direttore Carlotta Gori, che non si tratta di un rimbalzo tecnico ma di una crescita strutturale.
“In alcune parti d’Italia questa progettualità ha già portato i suoi frutti, nel Barolo per esempio. Nel Chianti Classico si è discusso per più di 30 anni prima di arrivare alla decisione che è stata presa a larghissima maggioranza nel maggio scorso. Un lunghissimo purgatorio, visto che siamo nell’anno dantesco”, commenta Luciano Ferraro del Corriere della Sera, moderatore dell’evento. “Interessante è che ci sia un percorso iniziato nel 2014 con la Gran Selezione e che ora continua con queste aree più ristrette dotate di maggior omogeneità, un percorso di valorizzazione che non ha molti eguali in altri territori”.
Chianti Classico che si declina in 3 livelli: il primo richiede dodici mesi di invecchiamento, la Riserva 24 e la Gran Selezione almeno 30 e uve proprie. Ma cosa significa UGA e come spiegarlo ai professionisti stranieri? ”Sono andato a rileggermi il famoso articolo di Eric Asimov del New York Times sul Chianti Classico perfetto per l’estate”, spiega Luciano Ferraro. “Scrive che la zona è un complicato miscuglio di suoli, vigneti, altitudini e microclimi, che i fautori del progetto delle unità geografiche dicono che questo aiuterà il consumatore a farsi un’idea del carattere del vino, mentre per gli oppositori si farà troppa confusione perché le divisioni geografiche devono semplificare, sintetizzare i caratteri delle varie zone. Ma Azimov conclude che secondo lui è meglio che i consumatori abbiano più informazioni possibili sul rapporto fra il vino e il vigneto e si schiera dalla parte di quello che il Consorzio oggi ha fatto. Asimov, a titolo esemplificativo, scrive che i vini di Radda in Chianti sono eleganti, di grande finezza, mentre quelli di Castelnuovo Berardenga sono spesso più ricchi e strutturati”.
Altra novità introdotta con il provvedimento del maggio scorso è la percentuale del Sangiovese, che nella Gran Selezione viene aumentata dall’80 al 90%, mentre nel restante 10% non ci saranno più le varietà internazionali, ora ammesse, ma solo autoctoni chiantigiani come canaiolo, colorino, malvasia nera, mammolo, pugnitello e sanforte. Modifiche che saranno estese più avanti anche alla Riserva e al Chianti Classico più giovane.
Unità geografiche aggiuntive, un sogno che parte da lontano, “Nel 1990 il Consorzio aveva organizzato una degustazione a Vienna e io insieme all’amico Paolo De Marchi di Isole e Olena decidemmo di andare in auto. Siamo stati dieci ore, tutto il viaggio di andata, a discutere su come suddividere il Chianti Classico in zone più piccole ma più omogenee. Ben 31 anni fa. All’epoca eravamo giovani, considerati un po’ rivoluzionari, ma con l’entusiasmo. Le nostre richieste furono totalmente inascoltate da chi guidava il Consorzio allora, perché nel cda c’erano imprenditori di generazioni precedenti con una mentalità più conservatrice della nostra. Però adesso siamo noi a guidare la macchina, la casa comune, il patrimonio collettivo Chianti Classico, e questo dovere di portare avanti una riforma strategica persiste perché farà fare un salto in avanti a tutta la denominazione in termini di reputazione, posizionamento, immagine e qualità”, racconta Giovanni Manetti.
Undici UGA: San Casciano, Greve, Lamole (solo 80 ettari vitati ma grande storia), Montefioralle, Panzano, Radda in Chianti, Gaiole, Castelnuovo Berardenga, Vagliagli, Castellina in Chianti e San Donato al Poggio. “Trovare un accordo non è stato semplice, ma alla fine ce l’abbiamo fatta”, continua Manetti. “Siamo andati ad analizzare sia fattori naturali sia quelli umani. È la loro combinazione che crea un terroir. Abbiamo almeno undici tipi diversi di suolo, un terreno collinare con catene montuose, colline che si susseguono a valli. È molto complicato trovare delle omogeneità di fattori naturali e quindi ci siamo accontentati di una ridotta disomogeneità. Se avessimo dovuto raggruppare delle zone completamente omogene avremmo dovute creare 150 unità geografiche e non 11 come quelle realizzate. È stata molto importante anche la presa in considerazione dei fattori umani, ossia le tradizioni locali, la cultura del territorio, l’identità dei luoghi, ma anche le interazioni fra i produttori, il sentimento di appartenenza. A volte una zona corrisponde a un comune, a volte a un borgo, un villaggio, una frazione. Il comune di Castelnuovo Berardenga si divide in due zone: Vagliagli e Castelnuovo Berardenga. Nel comune di Greve, che è quello più complesso e più grande come dimensioni, ci sono quattro UGA diverse. Sono stati sentiti centinaia e centinaia di viticoltori”. All’interno di ogni zona ci sono fattori naturali caratterizzanti. “Uno di questi è il microclima. Gli altri sono la natura del suolo, il range di altitudini, l’esposizione. È l’inizio di un percorso, ma sono convinto che questo porterà sempre di più a rafforzare i caratteri di Radda, Gaiole, Montefioralle e delle altre aree geografiche”.
Altro tema è la biodiversità. “Aiuta ad affrontare il cambiamento climatico. Oltre il 65% della superficie nel Chianti Classico è coperta da boschi. Tante zone viticole dove si fa monocoltura stanno varando in fretta e furia misure per piantare alberi perché aiutano ad avere un ambiente molto più ricco di vita, un microclima più fresco, una gestione delle piogge più razionale. Questo ci permette di fare grandi annate anche se il clima sta un po’ cambiando”, spiega Manetti. “Meno del 15% del nostro territorio è coperto dalla vigna. Abbiamo 7200 ettari di vigneto iscritti alla denominazione, più duemila circa da cui si producono vini Igt. Il Chianti Classico è una di quelle denominazioni che ha la percentuale di bio più alta, siamo al 52,5%. Solo due anni fa eravamo al 40%, quindi c’è un trend in atto significativo che sta convertendo la viticoltura chiantigiana al biologico. Biologico che viene visto come qualcosa che ci può dare una maggior purezza nei caratteri del vino, una maggior territorialità. Tante le buone pratiche di sostenibilità, ampio l’utilizzo di energie rinnovabili. Alcuni distretti sono totalmente bio e sono serviti come esempio positivo per tutti”. Entrando nel dettaglio delle UGA: “L’estrema variabilità dei suoli conferisce caratteri specifici ai vini. La catena dei monti del Chianti è la colonna vertebrale del territorio. Parte da nord e scende fino a Castelnuovo Berardenga ed è composta essenzialmente dal macigno, una roccia arenaria senza calcare. Sono terreni che hanno una maggiore percentuale di sabbia rispetto all’argilla e altitudini più elevate. Lungo questa catena troviamo il villaggio di Lamole, un’unità geografica specifica, e buona parte del territorio di Radda ha questa tipologia di suolo che ritroviamo a Gaiole e in piccola parte a Castelnuovo Berardenga. Da questo tipo di suolo ci aspettiamo vini di grande finezza, con tannino fine, forse non così ricchi di colore e struttura però di grande eleganza. L’alberese è il suolo prevalente nel Chianti Classico. Si tratta di una roccia calcarea di aspetto biancastro, che regala acidità, profondità, struttura. Di solito è collegato a un tipo di suolo con una tessitura più argillosa. Nella parte che da nord va verso il perimetro ovest troviamo depositi marini, lacustri o fluviali. Sono suoli con bassa percentuale di calcare, danno tannini più fini, grande eleganza, piacevolezza e fragranza. Basti pensare ai vini di San Casciano Val di Pesa o della parte più bassa di Castellina in Chianti. Suoli molto interessanti che di solito si trovano ad altitudini più contenute. A Panzano abbiamo presenza congiunta di galestro e alberese o pietra forte, una roccia arenaria come il macigno ma con fortissima presenza di calcare. E via dicendo. La mappa geoviticola va incontro alle esigenze del degustatore rendendo facilmente leggibili alcuni caratteri del vino”.
La vendemmia. “Di grande qualità e con quantità in linea con l’anno scorso che era già un 10% inferiore all’anno precedente. La settimana dopo Pasqua il termometro in qualche zona è andato sotto zero, le viti hanno subito uno shock e si è creato un ritardo del processo vegetativo. Quest’anno abbiamo raccolto un po’ più tardi del normale. Siamo contenti di essere tornati a vendemmiare a ottobre, in effetti l’uva è un frutto autunnale, non estivo, e pertanto va raccolto quando le notti sono più fredde, così si arricchisce di aromi e profumi e resta una grande acidità”, conclude Manetti.