Emanuele Ragnedda fa vino in Sardegna, a 240 metri sul livello del mare. A Palau,  tra Arzachena e Santa Teresa di Gallura, in un territorio storico e particolarmente vocato alla viticoltura da tempo immemore. La tenuta Concaentosa, una delle più interessanti della Sardegna, che affaccia sulla Corsica e sull’arcipelago della Maddalena, fa capire già dal nome che la zona è battuta dal Maestrale, infatti Concaentosa significa proprio “custodia del vento”.
Qui si fa Vermentino, principalmente. Cinque gli ettari vitati su settantadue di proprietà. Lui, Emanuele, è uno di quei vignaioli che ci crede davvero. Questa mia opinione si consolida nel corso dell’intervista. Non ama i giri di parole, va dritto al sodo della questione. Ha una visione chiara, molto chiara. Ed è uno “tosto”. Uno che non si piega a compromessi. Questo, forse, il motivo per cui è riuscito ad aprirsi (e ad aprire) una strada maestra con il Vermentino di Gallura. Un’autostrada direi. “Sono a completa disposizione per parlare della mia terra. Non mi interessano le interviste che mi etichettano come un scontrino alla Flavio Briatore della Costa Smeralda. Bravo imprenditore, nulla da dire, ma il nocciolo della questione è un altro. È come puntare il dito alla luna e guardare il dito, non la luna”, esordisce il vignaiolo, stanco di sentirsi dire che il suo Vermentino Disco Volante, top di gamma quest’anno arrivato a milleundici bottiglie, l’anno scorso a settecentoquaranta, è troppo caro.
In questi giorni Ragnedda è al centro di alcune critiche, bersagliato perché il suo Vermentino lo vende – o meglio riesce a venderlo – a cifre non propriamente comuni per i vini italiani, ma più consone a quelli francesi. “Dicono che il mio Vermentino è caro, ma se fossimo in Francia non lo direbbero: là vengono riconosciuti qualità, valore e tradizione. A chi, in maniera inopportuna, ribatte sempre che Oltralpe la tradizione vinicola è di lunga data, rispondo che i sardi furono i primi vinificatori nel Mediterraneo. La Sardegna è terra del vino da oltre tre millenni. Quindi, di cosa parliamo? Il settore del vino deve farsi rispettare. L’agricoltura è vita, dignità. Mi chiedo se qualcuno si metterebbe mai a contestare il prezzo di grandi blasoni nazionali e internazionali. Se io fossi nato in Borgogna queste polemiche non ci sarebbero state. Senza nulla togliere ai colleghi d’Oltralpe, che ammiro e di cui compro bottiglie, va detto che loro hanno più opportunità per creare vini a tavolino”. Affonda: “La qualità si paga, succede in tutti i settori, quindi dobbiamo riportare alla normalità quello del vino, affinché  torni ad essere il più rispettato. Non bisogna avere paura di un prezzo,  semmai bisogna aver paura di credere che non siamo bravi quanto gli altri”.
Secondo le leggende greche fu l’eroe Aristeo a introdurre le coltivazioni sull’isola. Quel che è certo è che la vinificazione risale almeno al XV secolo a.C.: in base a studi archeobotanici il vino più antico del Mediterraneo occidentale era sardo, una sorta di Cannonau di tremila anni fa. Il ritrovamento presso la civiltà nuragica del torchio di Monte Zara, vicino a Monastir, è prova di una tradizione vinaria nell’età del Bronzo medio. Un tempo difficile quasi da calcolare.
Emanuele Ragnedda, prima di mettersi in proprio, era export manager della cantina Capichera – fondata dal padre Mario sempre in Gallura, poi ceduta all’imprenditore Carlo Bonomi – che gli ha permesso di formare una visione internazionale. In lui il desiderio di vedere grande la Sardegna sulle tavole del mondo, non solo come qualità ma con un valore proporzionato a un passato glorioso. “Il mio ruolo da export manager mi ha insegnato che bisogna essere umili facendo però rispettare la propria umiltà, altrimenti non ti daranno mai retta”.
A proposito di papà Mario: “È  stato il mio più acerrimo oppositore nelle fasi iniziali e adesso è il mio più grande sostenitore. Voleva capire quanto ci tenessi a fare il vignaiolo. Per me fare vino è dar voce a quella sensazione di inadeguatezza che per molto tempo mi ha accompagnato. Cercavo qualcosa in cui non solo fossi bravo ma in cui potessi riconoscermi. E il vino è tutto questo per me. Io produco i vini che ho sempre sognato di fare: elettrici, comprensibili e universali”.


L’orgoglio sardo nel mondo del vino è un po’ assopito o è vivo? “Per quanto mi riguarda c’è tantissimo orgoglio. Purtroppo c’è anche un po’ di malinconia e delusione nel vedere che questo sentimento è stato  soffocato da tutta una setta di persone, con vari ruoli nel mondo del vino italiano, che non ha permesso alla Sardegna di mostrare un sano orgoglio, una sana ambizione, con inevitabili ripercussioni non solo a livello economico ma anche sociale e personale di riconoscimento dei propri risultati”. Continua: “La Sardegna è una terra meravigliosa, la Gallura ne è parte. Dobbiamo ricordarci sempre chi siamo. La Sardegna non è fatta di spiagge chilometriche ma di spiagge piccole, così come le sue estensioni vitate non sono di migliaia di ettari, a differenza di altri paesi. Questo non significa, però, che non possiamo esprimere qualcosa di straordinario. Molte aziende hanno dimostrato il proprio potenziale, lo hanno  reso reale. Mi rendo conto, però, che in Sardegna sta accadendo qualcosa che non dovrebbe accadere, perché si sta snaturando un mercato volendolo accomunare a quello di regioni vinicole nel mondo che con noi non hanno nulla a che vedere in quanto hanno possibilità di produrre quantità non paragonabili alle nostre. I produttori della mia terra sono piccoli produttori, a volte hanno due ettari, a volte venti, a volte cinquanta, ma non di più. Non ci si può comportare da giganti se si è alti un metro e venti, però si possono avere dignità, orgoglio, identità”.
Ma salendo sulle spalle dei giganti chi vede più lontano: i nani o i giganti? “I nani, però prima di arrivare sulle spalle dei giganti devono fare una lunga e dolorosa guerra. Io sono pronto ad affrontarla, ho acqua nei pozzi e forza di volontà. Spero di portare con me anche tanti altri colleghi che si sentono traditi da tanti attori del settore”.
Fare vino è anche un fatto politico e sociale? “Io mi sono tenuto in un cono d’ombra volontario per anni. Alla fine per me è diventato anche un fatto politico e sociale, o meglio più sociale che politico. Io potrei pensare a me stesso, ho il mio circuito di acquirenti, vendo tutta la mia produzione – quarantaduemila bottiglie totali – ma sarebbe una politica sbagliata e divisiva. Non sono un vignaiolo che dice che dobbiamo muoverci come un fronte unico in tutte le situazioni, al contrario ognuno deve trovare la propria strada, però dobbiamo andare tutti, anche se a velocità diverse, nella stessa direzione. La Sardegna produce eccellenze in tutti i campi, quindi perché in un settore vitale questo non deve accadere? Perché non dobbiamo pretendere da noi stessi e per i nostri clienti livelli di eccellenza pari o superiori a quelli di altre regioni vinicole del mondo? L’unico ostacolo è la nostra mentalità”.
Ragnedda, grazie a una serie di viticoltori che gli conferiscono cannonau e bovale, produce il rosso Nikitai, uscito quest’anno, blend Mandrolisai ma senza l’uva monica.
Quanto ai bianchi: “Tutti miei Vermentini sono prevalentemente vinificati in acciaio perché il loro profilo stilistico è riconoscibilità, territorio, elettricità. La diversa combinazione di ben quattro cloni che utilizziamo è alla base del loro successo”. E quali sono questi cloni? “Non posso dirvelo”.
Il Disco Volante, da acciaio e cemento, con un passaggio in legno brevissimo, affina tre-quattro mesi in grotte di granito dello spessore di sei metri. “Lo mettiamo nelle grotte, che non hanno una temperatura controllata perché sono aperte, a metà novembre e poi decidiamo in base al calore esterno quanto tenerlo a riposare. Il nostro protocollo deve essere elastico, perché il vino è vivo e perché lavoriamo a livelli di eccellenza che non si possono calendarizzare”, spiega.
Il nome Disco Volante deriva dai reperti archeologici dell’area, tra cui una roccia, che sembra un disco volante, levigata migliaia di anni fa e grande come un’utilitaria. Lui tira fuori il cru da meno di un ettaro di vigna e da suoli di disfacimento granitico, pietrosi, sabbiosi e molto poveri. Gli altri Vermentini sono l’Orahona, lo Shar (“dal nome di un popolo guerriero, gli Sherdan, che abitava la Sardegna mille anni fa, il mio primo vino”) e a breve un nuovo prodotto che uscirà dalla cantina a dodici euro e dovrebbe chiamarsi “Accaru” (che in gallurese significa “è già qualcosa”).
Cosa fa lo scarto per produrre un grande vino? “Le persone. Vorrei che in Italia si riportasse al centro il ruolo dell’enologo e del produttore. Per troppi anni ho sentito dire che il vino si fa in vigna. No, l’uva si fa in vigna, il vino buono si fa in cantina, grazie alle persone con la loro umanità, con la loro visione”.