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Fermento Emilia, l’apoteosi delle bollicine naturali

 

Riprendiamo il cammino alla ricerca delle cantine emiliane che vinificano con metodo classico e rifermentati in bottiglia. Dalla provincia di Piacenza, fino al versante occidentale del Bolognese, in particolare in Val Samoggia, esistono da anni tanti produttori, piccoli o grandi, che hanno deciso di cambiare, anzi sovvertire la nomea per cui l’Emilia si è fatta conoscere: pianura, Lambrusco in grandissime quantità, vinificazione meccanizzata, conferitori e cooperative.

Già ai tempi di Giovanni Bellei, papà di Christian della Cantina della Volta, oppure con Massimo e Fabio Lini, si tracciava una linea di demarcazione, c’era tanta voglia di migliorare. Andando in Francia, studiando il metodo champenois, le generazioni precedenti, di padre in figlio hanno portato anche da noi la volontà di fare bene e di distinguersi. Poi ci sono stati gli anni ’80, quelli dei grandi numeri e del Lambrusco dolce che finiva oltre oceano per piacere a un pubblico nuovo alla ricerca di bollicine facili. Nel mentre altri emiliani si impegnavano a fare spumantizzazione di qualità: potremmo citare Rinaldini che da sempre fa metodo classico, oppure Venturini Baldini, Lusvardi, oppure ancora Chiarli con il suo ancestrale, ma anche tanti altri modenesi come Paltrinieri, Fiorini, Zucchi, chiedendo scusa ai tantissimi non menzionati. Sarebbe bene ricordare i piccoli produttori sempre attenti alla vigna e alla vinificazione, come Luca Messori con la sua azienda agricola Anna Beatrice, che lavora Maestri e Spergola in purezza vinificando con metodo classico, oppure i fratelli Storchi bravi nella rifermentazione in bottiglia tanto quanto nei vini fermi da uve internazionali; ebbene proprio loro, assieme a tante altre realtà familiari o comunque a piccole cantine, erano presenti all’ultima edizione di Fermento Emilia che si è svolta nella storica location del Castello di Montecchio, in provincia di Reggio Emilia.

Per chi guarda da fuori a questo territorio fatto di eccellenze alimentari mondiali con dietro una storia infinita, come il Parmigiano-Reggiano oppure l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena o di Reggio Emilia, potrebbe suonare strano che al contrario, il vino nei decenni precedenti sia andato nella direzione del prodotto di massa. Se qua si costruiscono le Ferrari, le Lamborghini e altri top brand dell’automotive, allora cosa c’entra fare milioni e milioni di bottiglie? Ecco perché nel 2019 nasce il progetto Naturalmente Emilia, per valorizzare anche l’artigianato del vino, sensibilizzando i residenti di queste terre, e non solo, verso una consapevolezza diversa. Oggi più che mai, ragionando sul cambiamento climatico e sull’esigenza di un’antropizzazione ripensata che non deturpi la natura e che anzi la viva in simbiosi uomo-ambiente.

Per due giorni il Castello di Montecchio si riempie di produttori, appassionati e consumatori attenti. È una sorta di FIVI in miniatura, perché anche qui è possibile acquistare direttamente, ma le dimensioni contenute di questa rassegna non significano che non abbia rilevanza. Tutt’altro. I volti dei produttori parlano chiaro: fatica e dedizione, oltre la passione. Il bello sta proprio in questo: la dimensione umana, le piccole quantità che oggi si possono tradurre in vino di qualità, eseguito con grande cura, grazie anche alla tecnologia, come ad esempio il rispetto del ciclo del freddo. Per fare un vino naturale, se questa parola può veramente avere un senso concreto, forse non basta pensare ai lieviti autoctoni o all’abbattimento dell’uso dei solfiti. Non è poi il caso di abusare di altri termini da decenni sulla bocca di tutti, come biologico o biodinamico. Non è tutto qua. Certo c’è anche questo. Oggi conta forse di più recuperare un rapporto fra le coltivazioni e la terra, non solo ritrovando vitigni autoctoni, ma anche rivalutando uve internazionali che ben si adattano al clima emiliano. Allo scopo di ridare al terroir una identità assoluta. Allora torniamo all’epoca dei padri come Giovanni Bellei che piantava Pinot nero e Chardonnay a Serra Mazzoni, intuendo molto prima di tanti altri che il vino migliore si fa con le uve che crescono in collina.

Paradossalmente rispetto alle attuali esigenze climatiche alla ricerca della qualità, i primi colli che si innalzano dalla pianura di Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Modena e Bologna sono ancora troppo poco indirizzati alla coltivazione della vigna. Venendo da territori dove le denominazioni hanno dato ai terreni un valore economico che oggi è impressionante, alludo ad esempio al Piemonte con Barolo e Barbaresco, oppure alla Toscana con il Brunello di Montalcino e Bolgheri, si arriva in Emilia e saltano all’occhio colline che a confronto sono rimaste indietro di cinquant’anni. Si spiega solo perché l’obiettivo, come abbiamo detto è stato (ma è ancora) la meccanizzazione e la produzione di massa della vasta pianura.
Certamente cambierà, ci vorrà tempo, ma cambierà. Affinché ciò accada serve anche un consumatore diverso, più preparato e consapevole.

Torniamo per un momento al Parmigiano-Reggiano. La generazione dei nostri padri ragionava su stagionature intorno ai 24 mesi, magari fino a trenta. Trentasei proprio al limite. Poi tutto è cambiato, diciamo evoluto, come richiesta di mercato. Oggi abbiamo regolarmente la stagionatura da 40 mesi, ma il Consorzio del Parmigiano-Reggiano ha prodotto appositi bollini che possano identificarne anche di lunghissime, fino a 60 mesi e oltre. Accade perché si è lavorato tanto per promuovere un prodotto che prima quasi non esisteva. In altre parole, per allargare la platea a un pubblico con nuove esigenze, che non sia solo una nicchia, occorre costruirselo.

Nel vino sta accadendo lo stesso. Per vendere un metodo classico da uve Lambrusco o Spergola che avrà certamente un costo superiore rispetto a uno Charmat, risultato della rifermentazione in autoclave, occorre “lottare” per crearsi uno spazio commerciale affiancando le zone vicine che si sono fatte un nome (Franciacorta, Trento Doc, ma anche Alta Langa o Oltrepò Pavese). Occorre dare un colpo di spugna al passato. Magari creando dissapori con quelli che ancora vorrebbero andarsi a prendere il vino alla cooperativa, in damigiana e pagarlo pochissimo. Però bisogna decidersi: tutti parliamo di salari minimi, di giusta retribuzione anche nel mondo dell’agricoltura. Tutti oggi vorremmo la qualità e non la quantità, tutti vorremmo star bene potendo nutrirci con alimenti eccellenti che siano frutto di un ciclo produttivo virtuoso. Tutto giusto. Allora per il vino dobbiamo partire dal costo dell’uva. La filiera virtuosa è il cui risultato del rispetto di ogni ruolo. Infine tutto questo si traduce nel costo della bottiglia. Dunque niente ipocrisie: vogliamo un vino sano, fatto bene e con dietro il rispetto della natura e degli uomini che ci lavorano? Ci piace tornare ai rifermentati, agli ancestrali tanto di moda, volendo lasciarci il consumismo alle spalle per un ritorno ai prodotti genuini, però questo significa un prezzo adeguato. Non possiamo pensare che un metodo classico, un rifermentato da uve prodotte in Emilia costi meno dei citati nostri vicini di spumantizzazione. Non è una questione di uve, ma di metodo, come giustamente mi diceva Christian Bellei, la prima volta che ci siamo conosciuti in cantina.

Ecco perché a Fermento Emilia, fulcro della filosofia green contemporanea, oltre a Storchi, troviamo altri interessanti nomi che in questi anni si stanno facendo strada. Fra in banchetti distinguo alcuni produttori come ad esempio (in ordine sparso) Luigi Galeotti, Antonio Aldini, Bosco dei Caprioli, Podere Giardino, Illica Vini, Salvadora, Cà Nuova Gualdana, Azienda Agricola Monte Duro, Sebastian Van de Sype, Fondo Cà de Bartoli, Saccomani, Villa Rosalba, Ferraretti, Partitura 8, Cantina del Frignano, Crocizia. Con una netta predominanza dei rifermentati in bottiglia dal caratteristico tappo a corona, mentre alcuni vignaioli mettono correttamente in evidenza la differenza del metodo ancestrale che di fatto è un’unica fermentazione dalle vasche alla bottiglia. Chi fa metodo classico ha in più la sboccatura, che per piccole quantità può essere fatta anche alla volée. Tutti questi vignaioli, nello loro etichette, liberano la fantasia, dalle più essenziali realizzate con carte lavorate, fino alle più colorate con forme geometriche inusuali. E poi c’è Villa Cunial che oltre al vino, si impegna a portare la musica jazz in vigna. Esempio di ottimo equilibrio multisensoriale.