Cosa significa fare impresa, sia essa agricola o commerciale? Quali i modelli? Oggi è sicuramente cambiato il modo come lo scenario in cui ci si muove. Fondamentale essere parti attive nel cambiamento della società, creare valore per sé e per gli altri: etica, sostenibilità ambientale, economia circolare, che diventa sferica per Di Montigny, cioè incentrata sull’essere umano per una crescita armoniosa, equilibrata e inclusiva. Ma c’è un concetto trasversale che li abbraccia tutti e che nel convegno sul fare impresa oggi, tenutosi a Fortunago (Pavia), ha ben sottolineato Alberto Auricchio, quarta generazione (con la quinta pronta a partire), amministratore delegato dell’omonimo brand diventato sinonimo di prodotto, che ha attraversato due guerre mondiali. Ed è la responsabilità sociale. Quel continuare a sognare in grande ma non solo in verticale, anche in orizzontale. “Noi Auricchio siamo in azienda da generazioni. Chi ha fatto grande la nostra realtà è stato prima mio nonno e poi mio padre. A ogni cambio generazionale è come rifondare l’azienda perché se il prodotto è lo stesso, il mondo intorno no. Serve, quindi, capacità veloce di apprendimento per il cambiamento necessario. Nell’era della globalizzazione serve eccellenza, data dalla cura maniacale del prodotto, o non andiamo da nessuna parte. Dobbiamo avere qualcosa di unico, distintivo e che gli altri ci invidino e non siano in grado di copiare. Ma non basta. Serve la responsabilità sociale, che significa rispetto dell’ambiente, ma anche responsabilità economica verso una collettività. Lo dico sempre ai miei figli che l’azienda è la loro e che nessuno gliela toglierà, ma al tempo stesso che non è solo la loro perché hanno una responsabilità sociale davanti a seicento famiglie di dipendenti e tremila di indotto, motivo per cui non possono fare quello che vogliono. Ho sangue napoletano nelle vene, so cosa vuol dire metterci la passione, l’amore, il crederci, altrimenti si mette un bravo manager, facendo gli azionisti. È impensabile gestire una realtà di eccellenza made in Italy senza tener conto di questo. Perché è proprio questo a fare la differenza nel mondo, tra noi e le multinazionali spersonalizzate. Mio padre Gennaro è stato un visionario. Convocò un consiglio di amministrazione il 12 dicembre 1992, quando in azienda lavoravano dodici Auricchio con visioni diverse: c’è chi riteneva che dovessimo restare legati al nostro core business, il provolone, e chi, invece, che dovessimo allargare l’offerta. L’azienda era spaccata a metà, 50% a mio padre e l’altro 50% diviso fra i parenti. Il pericolo era vendere ai francesi. Mio padre, che aveva 78 anni, comprò il 50% dai cugini quando poteva prendersi una carriola di soldi dalla vendita. Sapete perché resistette? Perché aveva la responsabilità del futuro di noi figli e dei dipendenti. Noi siamo profondamente grati a lui e quella data la consideriamo la rinascita dell’azienda, che da allora è cresciuta in maniera esponenziale. La responsabilità sociale diventa la tua identità, i tuoi valori. Dna da passare alle future generazioni”.

Raccontando la sua esperienza e la visione di lungo periodo, Luigi Brega, numero uno di Lo.Gi.Man srl, che ha ridato vita a Golferenzo con il Borgo dei Gatti, progetto di albergo diffuso, fa leva sul concetto di appartenenza e radici come motore per lo sviluppo economico. “Ho avuto quella che considero una grande fortuna, ossia la possibilità di sperimentare sia la piccola impresa agricola a conduzione familiare, ancorata ai valori della tradizione, sia la realtà industriale. Fino a ventisette anni ho fatto il viticoltore in Oltrepò Pavese, dando il mio contributo a portare avanti l’impresa agricola di famiglia, che allora non voleva dire fare l’imprenditore in giacca e cravatta ma il cosiddetto laurà gram, ossia andare in campagna dal mattino alla sera, guidare il trattore, più tutta una serie di lavori pesanti. Si faceva impresa vendendo i prodotti agricoli. Finiti gli studi sono ‘espatriato’ per fare l’imprenditore immobiliare, settore di cui ho vissuto anche le crisi finanziarie, su tutte Lehman Brothers. Ai dipendenti che mi guardavano con stupore quando mi fermavo oltre le ore lavorative ‘normali’ rispondevo se avessero mai provato a lavorare sul serio. Io venivo dall’agricoltura e per me i sacrifici erano altri. Nel 2014-2015 sono arrivati i fondi di investimento importanti, abbiamo incominciato a vendere portafogli ai nostri investitori e da lì è arrivata la crescita. Oggi siamo, credo, l’unica azienda italiana in questo settore in grado di competere con realtà estere. Un bell’orgoglio visto da dove eravamo partiti. Da parte di mio padre erano viticoltori da generazioni, con vigneti a Montecalvo Versiggia, terra di pinot nero, da parte di mia madre era una famiglia di postini. Io realizzo capannoni per corrieri espressi quindi – scherza – sto perpetuando la tradizione materna. Mamma aveva anche terreni di moscato a Golferenzo, zona particolarmente vocata al vitigno, ma soprattutto lì c’era un borgo con dei rustici dei miei nonni, che nel 2018 ho recuperato per realizzare il mio sogno di bambino nella terra dove sono cresciuto. Oggi investiamo nel turismo internazionale, attratto dal nostro tipo di offerta. L’albergo diffuso è la formula più adatta per il recupero dei borghi, per risolvere lo spopolamento e la perdita di personale. I luoghi dell’Oltrepò Pavese sono fantastici, ma l’effetto wow finisce quando si arriva sul territorio e non ci sono servizi. La crisi della ricettività e dello sviluppo turistico che stiamo attraversando è dovuta al fatto che non si investe abbastanza in servizi per il turismo. A Golferenzo abbiamo voluto fare il contrario, creando servizi per gli stranieri, che girano per le vie del borgo anche in accappatoio per andare in piscina. C’è una realtà multiculturale che tiene vivo il paese dove da piccolo mi aggiravo con il bottiglione di latte appena munto. Con questo sistema creiamo valore aggiunto non solo al borgo ma al territorio circostante”. Affonda: “Non si può essere competitivi con terreni agricoli che valgono duemila euro alla pertica. Bisogna cercare di lavorare sul concetto di bello. Ognuno deve creare un circolo virtuoso di cui beneficeranno tutti”.
Per Matteo Casagrande Paladini, direttore generale di Colline e Oltre Spa, newco di Intesa Sanpaolo e Fondazione Banca del Monte di Lombardia per il rilancio dell’Oltrepò Pavese, territorio a forte vocazione agricola, bisogna puntare sulle eccellenze e su una identità precisa per avere appeal: “Fare impresa è anche focalizzarsi su come portare investimenti in loco. Prioritario è fare formazione e sistema, unendo le forze in maniera complementare con tutti gli attori. Non vogliamo sovrapporci a consorzi, gal, società di sviluppo territoriale. Questo non ci interessa. Vogliamo creare sviluppo con una base di opportunismo sano che si chiama libero mercato del capitale. In questo modo riusciremo ad attivare un territorio che ha un arbitraggio totale”.
L’impresa sociale è il motore per una crescita sostenibile e inclusiva dell’Oltrepò Pavese, che ha nel settore vitivinicolo una significativa forza economica e di richiamo turistico. Se la Lombardia con 3,9 miliardi di euro è la prima regione italiana per valore aggiunto in agricoltura (11% sul totale italiano), Pavia è la quinta provincia lombarda, in termini di valore aggiunto, con 399 milioni di euro nel 2018, sesta per occupazione. Basti ricordare che circa il 35% della superficie totale è destinata alla coltivazione del riso (78.200 ettari), con una produzione di 5,3 milioni di quintali (prima provincia italiana, seguono Vercelli con 4,8 e Novara con 2,3). All’uva da vino sono destinati circa tredicimila ettari con una produzione di oltre 1 milione di quintali di uve per vini Dop e Igp. Altro dato su cui riflettere, la provincia di Pavia conta dodici prodotti Dop/Igp con un giro d’affari di circa 200 milioni. “Perché grandi investitori arrivano sul territorio? Per due motivi: un motivo istituzionale che ha visto il presidente Mario Cera credere nelle opportunità della grande fusione tra Ubi e Intesa Sanpaolo per dare uno slancio ulteriore al nostro territorio di Pavia e dell’Oltrepò Pavese, che ha un potenziale ancora inespresso sui mercati esteri, e dall’altra parte il fatto che c’è un oggettivo arbitraggio. L’ettaro vitato in Oltrepò Pavese vale 40mila euro, se mi sposto di cento chilometri vado a moltiplicare per 4, 6, 10 o anche di più. Cosa ci manca per raggiungere l’obiettivo? Nulla. Solo riuscire a fare sistema per proteggere questo racconto, per i soggetti che devono comprare prodotti ma anche per quelli che devono investire e vederne le attrattive”.
Si parte da un concetto fondamentale: non cosa può fare il territorio per i singoli attori, ma cosa possono fare i singoli attori per il territorio.