Percorrendo a piedi o in bici il primo tratto italiano della via Francigena valdostana fino a Quart, in buona parte lungo il tracciato dell’antica strada romana, sullo sfondo il profilo delle Alpi, si arriva a una panchina gigante, rosa, la quinta della Valle d’Aosta, una delle celebri big bench di Chris Bangle. Installata nel vigneto Tzeriat, della famiglia Grosjean, a 850 metri slm, domina uno dei luoghi più alti e panoramici di Quart. Tzeriat è uno dei rinomati cru aziendali di Pinot nero ed è la vigna che ha dato il là alla produzione qualitativa di Grosjean. Porta con sé la storia della famiglia. Qui la natura è padrona del tempo, prima di tutto. La vista sulla conca della città di Aosta da una posizione privilegiata invita a rallentare. Le montagne da una parte, i sentieri percorsi a ogni ora da camminatori instancabili dall’altra, che intersecano i vigneti, raccontano una storia fatta di maestosità e fatica, dove l’uomo appare per quello che è: piccolo piccolo di fronte al tutto. E limitato nel tempo e nello spazio.
L’enoturismo, complice la via Francigena, strada europea nell’Italia del Medioevo, è passato da un 2-3% a un 13-14% nell’ultimo anno. Cambiano le epoche, cambiano gli uomini, cambiano le motivazioni, ma lungo l’antica via dei pellegrini, da Canterbury a Roma e verso Santa Maria di Leuca, si continua a camminare.


Hervé Grosjean ci accoglie in vigna, che lavora personalmente con l’aiuto di familiari e collaboratori. Conosce molto bene territorio e storia, così come i filari, uno a uno, che percorre quasi in punta di piedi, con grande rispetto del lavoro svolto. Si intende un po’ di tutto al di là della sua stretta competenza, cantina e vigna. E, non secondario, nelle parole e nei gesti ci mette sentimento. Fiero della sua appartenenza territoriale.
Subito sotto il cru Tzeriat si estendono le vigne di chardonnay e una parte di gamay. Grosjean, che oggi significa 18 ettari vitati, nel 2011 è la prima cantina in conversione biologica della Valle d’Aosta, la regione più piccola d’Italia, con soli 500 ettari coltivati a vite, ma al tempo stesso una delle più ricche con quasi venti varietà autoctone.
Laureato in viticoltura ed enologia ad Alba, oltre ad essere l’enologo della cantina, Hervé si occupa della parte agronomica: l’agricoltura è la sua passione principale. Il risultato è una coltivazione rispettosa dei delicati equilibri  naturali. A cominciare dai quantitativi di rame utilizzati in vigna, molto bassi. “Ricorriamo a preparati alternativi, costosi ma più rispettosi dell’uva, come estratti di ortica, un grandissimo antiperonosporico, e olio d’arancia, un essiccatore importante per combattere l’oidio. In regime biologico possiamo usare solo prodotti di contatto, che non entrano all’interno della pianta, quindi a ogni pioggia il prodotto è dilavato e dobbiamo intervenire. Fortunatamente siamo riusciti a contenere la flavescenza dorata, che sta flagellando il Nord della viticoltura valdostana”. L’erba è sfalciata o lavorata nel sotto-fila, 30 cm per parte. Grande l’attenzione anche per la vendemmia: i vigneti si trovano fra 600 e 900 metri slm, un dislivello che porta a effettuare raccolte diverse anche della stessa varietà, come accade per il pinot nero, per raggiungere il punto ottimale di maturazione.
Nel corso degli anni ho maturato una convinzione: che il vino è prima di tutto l’uomo che lo fa, che non ci può essere un grande vino dove non c’è o non ci sono grandi persone dietro, con una coscienza civica sviluppata, che un vino non è un punteggio ma una sensibilità. Il grande vino è amore, gentilezza, educazione, rispetto. Se queste cose non le hai, non le puoi trasmettere in ciò che fai. Chi ti vende una bottiglia, a fronte di un prezzo (mai rapportato al valore) ti “vende” la sua vita, il suo bagaglio emotivo e culturale, dei luoghi, magari in cui è vissuto e cresciuto, ti consegna se stesso. Il prezzo è simbolico.

L’incontro con Grosjean è casuale. Mi trovo a pranzo al 21040, ristorante noto per il pesce fresco a Vigevano, in provincia di Pavia ma più vicina a Milano. Il titolare, cui chiedo un vino di nicchia, insiste per farmi provare un Petite Arvine 2022, giovanissimo peraltro. Il Petite Arvine esprime il massimo del suo potenziale, dei suoi profumi a 36-40 mesi. Leggo in etichetta “Grosjean Vallée D’Aoste Vigne Rovettaz”. “Non l’ho ancora assaggiato, così mi dice lei come lo trova”, esordisce. Mi lascio convincere. Neanche io, del resto, lo conosco e sono curiosa.
Il vino mi conquista già al naso, fine nei profumi. In bocca freschezza, sapidità, lunghezza, armonia in ogni sua parte. Un magnifico vino di montagna. Una beva esaltante. Gli dico che senza averlo provato ci aveva visto giusto nell’acquistarlo. E lui mi lascia la bottiglia da portare a casa.
Chissà se mi capiterà l’occasione di visitare la cantina e le vigne! Mi ripropongo di chiamare Grosjean per dirgli in maniera sincera quanto ho apprezzato il suo vino. Poi desisto: in fin dei conti glielo diranno già in molti. Due giorni dopo mi chiama Lucia Boarini di www.zedcomm.it chiedendomi se mi avrebbe fatto piacere partecipare a un tour stampa per pochi addetti ai lavori. Destinazione Valle d’Aosta. “Da Grosjean. Ne hai già sentito parlare?”, esordisce.

Una storia, questa, che inizia 400 anni fa, quando in Valle d’Aosta erano 4500 gli ettari vitati, dieci volte tanto la viticoltura valdostana di oggi. “Eravamo la parte più a sud del regno di Borgogna, la più calda. I francesi sono stati i primi a disboscare il territorio, per loro strategico, per impiantare viti”, spiega Hervé. Le prime testimonianze di una famiglia Grosjean in quest’area risalgono al 1600, quando con l’allora Duca di Savoia alcune famiglie originarie della Savoia e Borgogna furono invitate a ripopolare la zona, decimata dalla peste del 1630. I Grosjean iniziano così a recuperare terreni abbandonati e a coltivarli, fino ad arrivare alla vite e al vino per il consumo familiare e locale. Segue un periodo di declino, verso la fine dell’800. È solo dopo la Seconda Guerra Mondiale che nonno Dauphin dà il via a una svolta iniziando a imbottigliare il proprio ciliegiolo nel 1968 per presentarlo alla II Exposition des Vins du Val d’Aoste. È lui, per primo, a credere in una crescita qualitativa enologica, abbandonando altre colture. Già allora nonno Dauphin non faceva uso di pesticidi ed acaricidi in vigna. Ma è solo alla fine del ‘900 che in Valle d’Aosta si inizia a fare sul serio con studi scientifici per riscoprire e valorizzare varietà autoctone, fra cui Fumin, Petit Rouge, Cornalin, Premetta. La famiglia Grosjean si struttura come azienda, rinasce la vigna Rovettaz, uno dei cru più importanti della regione, abbandonato per secoli. Nel 2000 nasce la nuova cantina e crescono i mercati, su tutti Stati Uniti e Giappone.


“La Valle d’Aosta è morfologicamente una grande fortezza. Intorno a noi alcune tra le montagne più alte d’Europa: il Monte Bianco, il Gran Paradiso, il Cervino e il Monte Rosa. La nostra regione è vissuta neanche in un 10% della superficie, quindi il territorio è ancora incontaminato”, continua Hervé. La famiglia lavora per valorizzare e “proteggere” nelle proprie bottiglie il territorio montano. Il senso di tutto lo si legge sul sito: “Coltivare il paesaggio con la cura e l’attenzione che si hanno per le cose più care”, e “per noi fare vino non è solo un lavoro, ma un vero e proprio motivo di vita” perché “abbiamo la fortuna di vivere in una delle zone più preziose del pianeta e lo stupore che proviamo quotidianamente nel vivere la natura della Valle d’Aosta ci spinge a dare il massimo per distillare quanta più bellezza da tanta meraviglia, in ogni singola bottiglia del nostro vino”.

Si parte dai vigneti, tutti in esposizione sud. Grosjean ha capito l’importanza di arieggiare la terra: ricca di scheletro, di sabbia e sassi, tende a compattarsi con il susseguirsi delle stagioni. “Muoviamo il terreno con le vanghe e poi interriamo sostanza organica, ogni 5-6 anni, dove ci accorgiamo che la vite perde vigore. A seguito di una piovosità importante a marzo e aprile scorsi, abbiamo iniziato con i sovesci, con ben quindici essenze diverse, tra cui senape, segale, orzo, veccia e leguminose per una vegetazione scalare”. Continua Hervé: “A differenza di quanto si possa pensare, questo è uno tra i comuni più aridi d’Italia, con 450 millimetri di pioggia caduti in media negli ultimi trent’anni. Motivo per cui ricorriamo all’irrigazione goccia a goccia. Il terreno non trattiene l’acqua, però dà mineralità e sapidità ai nostri vini. Riusciamo a fare il biologico non perché siamo più bravi degli altri, ma perché il clima molto secco, ventilato, con umidità bassa ci permette di intervenire poco con i trattamenti”.


I cru principali più importati rivendicati in etichetta sono Tzeriat (1,8 ettari) e Vigna Rovettaz (6 ettari), rispettivamente 3500 e 30mila bottiglie su un totale di 170mila. Dalla vigna Rovettaz, dove sabbia e pietre regalano una particolare sapidità ai vini, Petite Arvine, Cornalin, Fumin e Torrette Superieur.
Il 50% della produzione vola all’estero, in oltre trenta paesi. Gli Stati Uniti sono il primo mercato per il Pinot nero (“ne vorrebbero container, che non abbiamo”, dice), in crescita la Scandinavia, buona la ripresa del Canada nel post covid.
Vini dove il legno, quando c’è, è una presenza discreta, un vero gentleman. “Le barrique di rovere francese arrivano da foreste vicino Parigi dove la media delle piante tagliate è sopra i 120 anni. La Francia ha una cultura immensa sulla forestazione”, spiega. “Le barrique sono piegate a vapore, non a fuoco. Gli aromi di vaniglia risultano, così, delicati e non si sente tutta la parte della tostatura. Sullo Chardonnay, per esempio, questa pratica ci permette di mantenere più eleganza”. Precisa con orgoglio: “È il canonico Vaudan, amico di mio nonno Dauphin, che nei primi anni ’70 del Novecento intuisce che in Valle d’Aosta si possono realizzare grandi  Chardonnay, freschi e delicati ma al tempo stesso con struttura. Una struttura in cui il legno, che abbiamo introdotto sullo Chardonnay per la prima volta nel 2019, prima era vinificato solo in acciaio, entra in punta di piedi”.
Sono vini di montagna dove il territorio esce allo scoperto con sofisticata forza. Fra gli autoctoni coltivati, la premetta o prie rouge, una delle varietà più rare, dai tannini spinti, che l’azienda è l’unica a vinificare in purezza. Interessante anche il cornalin, da un incrocio tra petit rouge e mayolet, che dà vita a vini di grande eleganza e struttura, e il neyret, di diretta filiazione dal petit rouge, che è associato al nebbiolo per ottenere il Clairet. L’azienda è stata pioniera di una piccola uva di montagna, la petite arvine, varietà a bacca bianca tra le più tardive raccolte in Italia (sempre dopo il 10 ottobre), originaria del Vallese, in Svizzera, e ormai ben adattata per orografia e clima in Valle d’Aosta, tra 600 e 900 metri slm. Da questa uva si ottengono vini come il Petite Arvine Vigne Rovettaz, affinato in legno per il 30% della massa per circa otto mesi, un bianco che tira fuori complessità: freschezza e agrumi grazie alla vinificazione in acciaio e corpo, longevità e morbidezza grazie alla spalla del legno. Fuoriprogramma un meraviglioso Petite Arvine  2010, che ha retto bene gli anni. Merita una menzione anche lo Chardonnay 2020, una chicca di 1500 bottiglie, vinificato in barrique per un anno. Di grande carattere il Fumin, vino di montagna più rustico, di grande espressione varietale.
Veniamo al Pinot nero: se pensate  a estrazione e corpo che si trovano nei cugini francesi, dove nella terra c’è argilla, vi sbagliate. Freschezza, eleganza e longevità, con un frutto in perfetto equilibrio, in questo Pinot nero 2021, meno di 70 quintali a ettaro la resa, che ha sulle spalle solo un anno di bottiglia e che vinifica per il 30% a grappolo intero, con una macerazione di quindici giorni, per poi passare in tonneaux per 15 mesi. “ Un’uva difficile ma intrigante. A differenza del petit rouge e del gamay, che hanno linearità di vinificazione e quindi si riesce a dargli un’identità chiara fin dall’inizio, il pinot nero è dinamico, cambia, sorprende”.
E il nebbiolo in Valle d’Aosta? Grosjean ha rimesso in piedi un vino che da oltre duecento anni non era più in produzione, il Clairet (a farlo sono solo due o tre cantine in tutta la Valle d’Aosta). Poco più di 300 bottiglie in via sperimentale da nebbiolo con un 10% di neyret, vitigni già coltivati in zona tra il 1400 e il 1500. Quindici giorni di appassimento in cassetta, due anni di legno e uno di bottiglia (“in futuro si sperimenteranno contenitori diversi”). Nebbiolo raccolto a maturazione perfetta anche a 750 metri. Sul vitigno l’azienda sta investendo nella zona di Donnas, dove ha recuperato 5000 mq abbandonati per uscire nell’autunno del 2024 con Valle d’Aosta Donnas, da vari cloni di picotendro, tra cui il 423 e il 308.
Il respiro della montagna è quasi una presenza fisica. Che a un certo punto ci invita a far tacere il racconto per far parlare i vini.