Qual è il senso dei luoghi? Sono solo l’intersezione di coordinate o la destinazione indicata su un gps? O la descrizione degli elementi fisici che li compongono?
Un luogo è prima di tutto un approccio, una prospettiva per chi lo vive o lo visita, un insieme di emozioni dove la percezione soggettiva è in primo piano. I luoghi lasciano dentro di noi una traccia, che sia puntura o carezza. C’è un sentire emotivo che scaturisce dalla relazione con essi. E c’è una geografia emotiva o emozionale, per cui esiste accanto a un territorio reale un territorio personale in cui è possibile riconoscersi, forgiato dal carattere di chi lo vive. Un territorio che si legge come un’autobiografia, da comprendere negli spazi e nella loro distribuzione, nelle colline vitate, nei giardini, nei viali, nelle case costruite o ristrutturate pensando a figli e nipoti. Da comprendere attraverso l’arte di saper coniugare funzionalità ed estetica. Luoghi che forse ci appartengono prima di viverli.
Queste riflessioni si impongono quasi prepotentemente entrando nella tenuta vinicola del conte Aldo Brachetti Peretti, Il Pollenza. Acquistata più di vent’anni fa dal conte dai principi Antici Mattei, si caratterizza per il monumentale edificio del ‘500 disegnato dall’architetto fiorentino Giuliano da Sangallo. Siamo in contrada Casone, a Tolentino, lungo l’itinerario dei colli maceratesi, da cui prende il nome anche l’omonima denominazione di origine riferita a sei tipologie di vino bianco e quattro di rosso. L’occasione è il press tour organizzato dall’Istituto marchigiano di tutela vini.
Sculture, siepi, file di cipressi e di tigli raccontano un’altra storia oltre al vino, fissando persone, incontri, momenti. Lo spazio è ripensato come fonte di arricchimento estetico, emotivo. Un arricchimento che anima quel luogo e lo fa parlare. Nel suo Atlante delle emozioni Giuliana Bruno sostiene che le emozioni “oltrepassano i confini dell’individuo, vanno a sedimentarsi nella coscienza collettiva, divengono patrimonio culturale, visione del mondo, ideologia, civiltà, identità e assumono, quindi, un forte ruolo sociale perché agendo sugli individui, agiscono anche sui luoghi”.
Vivere un territorio significa farne parte attivamente con il lavoro e con la propria identità. È proprio per questo che la storia del conte (novantenne) Aldo Brachetti Peretti, che continua a correre, che arriva da Roma in elicottero e atterra nei pressi della sua villa al Casone, con il vivo desiderio di tornare, entusiasma.
Presente ai lavori in cantina con assiduità, il conte, in altre faccende affaccendato, ha saputo accettare i ritmi lenti della natura, si è lasciato ispirare e consigliare da alcuni amici produttori di vino e sono nati idee e progetti: i vigneti, una settantina di ettari a corpo unico fra vitigni autoctoni e internazionali su oltre 200 totali, la cantina, la barricaia con più di duemila barrique, barrique grandi e tonneaux, il palazzo che le ospita.
I vini fino al 2006 portano la firma di Giacomo Tachis: è lui a credere così fortemente nell’uso delle vasche di cemento per l’affinamento da spingere il conte a farle costruire. Secondo Tachis i vini vinificati in questo contenitore hanno una notevole riduzione dell’attività ossidativa, si stabilizzano maggiormente e viene preservata ed esaltata la parte del frutto. Il conte indicherà poi le vasche con i nomi delle persone di famiglia. Successivamente Carlo Ferrini, super consulente che fa parlare il territorio in cui i vini nascono, traghetterà l’azienda ai giorni nostri coordinando i due enologi interni, Carlo Del Bianco e Mauro Giacomini.
Figlio del conte Ugo, nel 1957 sposa Mila Peretti, figlia del fondatore di Api Ferdinando Peretti, ispettrice nazionale della Croce Rossa, che ha servito per più di trent’anni, e unica donna italiana ad avere il grado di militare generale. La famiglia Brachetti Peretti, che ha realizzato il sogno di creare un grande gruppo privato nazionale degli idrocarburi, è proprietaria del gruppo Api, che quest’anno festeggia novant’anni di attività: nel 2005 acquista dall’Eni la Italiana Petroli Ip, fusa per incorporazione nel 2007 e oggi ha rilevato in blocco anche gli asset di vendita e raffinazione di proprietà della Esso Italiana.
Quattro figli, a loro volta con prole, una vita vissuta pienamente e una moglie, Mila, che a Porano, sulle colline di Orvieto, coltiva rose, noccioli e ulivi nel podere Torricella, con una grande attenzione per le piante e l’architettura del paesaggio.
Ma al Pollenza, nelle Marche, la terra dei suoi amati genitori e della sua giovinezza, il conte, nato a Fermo, ha un pezzo di cuore, amicizie, fatti di famiglia, relazioni, lavoro. E il Pollenza è a sua immagine e somiglianza. Parla di lui, oltre ai tagli bordolesi. Tutte le scelte di stile sono sue. Il cavallo nero, imponente, che accoglie chi arriva, è stato il simbolo dell’Api sulle strade italiane per 50 anni. Con le sculture di Mitoraj, frammenti di corpo di estrema semplicità ed essenzialità di segno, l’arte contemporanea entra in cantina ed è testimone di un dialogo con i visitatori in una sorta di teatro dal vivo. La domanda sottesa all’opera di Mitoraj è quella del chi siamo e si riallaccia alle identità, e forse non è un caso che l’artista polacco sia presente qui con alcuni dei suoi lavori creativi.
La tenuta è la sua dichiarazione d’amore al territorio. “Avrebbe potuto creare l’azienda ovunque”, ci dicono stretti collaboratori, “invece ha scelto di tornare a casa e fissare un luogo del cuore sulle colline marchigiane”.
Il suo imprinting fortissimo plasma anche la squadra di lavoro, che deve giocare al suo posto la partita dell’accoglienza e creare eccellenza.
Per quanto mi riguarda, parlando di vini, ho voglia di tornare ad assaggiare una delle loro sfide, il Colli Maceratesi Ribona Doc Bianco 2012 Cru Angera (dal nome della nipote), formato magnum, con spinta idrocarburica degna di un Riesling Renano. Una Ribona che esprime carattere e fa capire il suo potenziale di invecchiamento. La Ribona, di cui l’azienda coltiva due ettari, per poi in cantina lavorare molto sulle fecce fini con periodici batonnage, racconta una storia di identità, di radici e dà vita a vini molto freschi, sapidi e gastronomici.
E ancora: si può far bene un Metodo classico al di fuori dei territori più vocati alla produzione spumantistica? Sì, ne è un esempio il nuovissimo A.BP. 2013, degorgiato ad aprile 2020, zero dosage, rosè da Pinot nero, una sfida in cui Carlo Ferrini, appassionato di bollicine, ha ritenuto che l’azienda dovesse cimentarsi. In degustazione l’edizione super limitata con 120 mesi sui lieviti, rispetto ai 72 previsti.
Un storia ricca di fascino che continua a San Severino Marche, località Colmone, equidistante dal mare Adriatico e dall’Appennino umbro-marchigiano, dove la viticoltura ha una storia plurisecolare e dove si può degustare la Doc I terreni di Sanseverino Moro (a maggioranza Montepulciano), di cui al momento sono gli unici produttori.
Vini che si fanno ricordare in un’annata chiave, frammenti su cui si concentra l’attenzione come per le opere di Mitoraj. Vini in cui si riconosce la bellezza estetica del luogo. Perché, non dimentichiamocelo, dietro i vini e prima del territorio ci sono le persone con le loro scelte.