Cominciamo dalla fine e riavvolgiamo il nastro. Il 6-7 aprile, nella storica sede del Museo Orsi di Tortona, per il quarto anno è Derthona Due.Zero, l’evento organizzato dal Consorzio Tutela Vini Colli Tortonesi per la degustazione in anteprima dell’annata 2022 del Derthona Timorasso (una due giorni con possibilità di confrontare bottiglie invecchiate per capirne lo straordinario potenziale evolutivo).
Quanto alla denominazione sono in corso cambiamenti (attesi da tempo) a partire dalla vendemmia 2024: la specifica del territorio, Derthona, avrà un peso rilevante (come accade nel Barolo e in altre aree vinicole di pregio). L’obiettivo del Consorzio è arrivare nel giro di tre anni a utilizzare solo il nome Derthona per il Timorasso Colli Tortonesi.
Il Timorasso, l’oro di Tortona, il rosso travestito da bianco simbolo del Rinascimento dei suoi colli, si chiamerà Derthona anche nelle Valli Borbera e Spinti (l’appellativo Terre di Libarna resterà solo per lo spumante).
Il disciplinare è degno di un rosso: rese sotto i 75 quintali a ettaro, un anno di affinamento per il Derthona, tre per la Riserva, e chi non vuole aspettare può chiamarlo Piccolo Derthona. Un vino che dà le soddisfazioni migliori con qualche anno sulle spalle e che quindi non può essere trattato alla stregua di qualsiasi altro bianco. E la bottiglia (cosa da non sottovalutare e giusto per essere precisi) non può pesare più di 600 grammi, da disciplinare.
Oggi un chilo di uva per il Timorasso costa quanto uno per il Barbaresco. È questo il riassunto, al di là di mille parole, che fotografa un percorso iniziato, o meglio azzardato alla fine del secolo scorso quando Walter Massa, per tutti indiscutibilmente il padre del Timorasso, o meglio del progetto Derthona, riscopre questo vitigno autoctono, non facile da coltivare, caduto in oblio perché considerato non remunerativo.
Per intravedere strade bisogna essere un po’ folli: “E io lo sono. Allora di Timorasso ce n’era meno di un ettaro, oggi sono 400, ma si può fare di più: nei prossimi tre anni se ne potranno impiantare ancora 160. Il mio sogno personale, come azienda, è arrivare a 40 ettari, dai 35 attuali, per un totale di 25 a timorasso. Sognando come territorio, spero che arriveremo entro il 2030 a mille ettari”. A chi gli fa notare che è una follia, risponde: “Le mie follie si realizzano tutte. Con la vendemmia 2023 sul territorio supereremo il milione di bottiglie, ma il potenziale è di 4 milioni”, spiega Walter Massa. La sua azienda ne produce 90mila.
È l’8 marzo. Siamo sui Colli Tortonesi, a Monleale, nell’estremo lembo orientale del Piemonte che ha conservato tutto il suo fascino rurale. Un territorio un po’ periferico nella geografia vinicola del Paese ma che ha saputo mettersi al centro.
Vini buoni si bevono ormai in (quasi) tutto il mondo; vini eccellenti in diverse parti del mondo. Questo per dire che oggi a fare la differenza prima del vino sono sempre di più le persone, è un pensiero a monte, un’idea, spesso un’idea copiata (l’importante è farlo bene da chi fa meglio), ma pur sempre un’idea. I vignaioli qui sono ancora e prima di tutto artigiani del fare, con una sana visione imprenditoriale. Possedere la terra è per loro un valore ancestrale, sangue che scorre nelle vene: inconcepibile fare vino senza avere il proprio appezzamento vitato (e ben curato). Non si vende fumo: si vendono fatti agricoli concreti e una reputazione. È questo il messaggio incontrovertibile che chi viene da fuori recepisce, prima di qualsiasi discorso. Sono ormai lontani i tempi dei torbolini del Tortonese, quando quasi nessuno vinificava le uve bianche, che si esportavano, specie in Francia e Germania, allo stato d’uva o dopo una fermentazione di 12-24 ore.
Massa lo trovo già in piazza al mio arrivo. Non vede l’ora di parlare del Timorasso, di riavvolgere quel nastro dei ricordi (probabilmente per la milionesima volta, ma sempre la prima). Dietro di lui, sullo sfondo, una sala degustazione con un pianoforte verticale rivolto verso la Val Verta: è preciso e dettagliato nell’indicarmi i singoli appezzamenti vitati, mentre degli operai al lavoro arriva il vocio (“mi faccia ascoltare cosa dicono”). E snocciola una serie di nomi, due su tutti: Specchio del sole, crasi tra due quadri di Pellizza da Volpedo (Lo Specchio della vita e Il sole), esposto a est, irraggiato dal sole del mattino; il Gattopardo, pseudonimo, quando scriveva di sport, dell’amico “Beppe” Zerbino, corrispondente Ansa di Alessandria.
Vista, udito e gusto: Massa ama le connessioni quanto trovare un senso nelle cose: “Il vino è musica ed è arte: a proposito, qui vicino nacque Pellizza da Volpedo”.
Mi mostra dove fu partorito: la casa del padre oggi è il centro agricolo dell’azienda. È una giornata lavorativa: nel piazzale sono pronte le barbatelle per i rimpiazzi. “La domanda a un certo punto me la posi: e adesso cosa pianto? Di cosa ha bisogno questo territorio per uscire dall’anonimato? Sa, nelle cose devo vedere o perlomeno intravedere un senso. Con un vitigno internazionale sarei stato uno dei tanti, probabilmente avrei fatto un buon vino ma nulla di più, nulla di veramente distintivo e territoriale, invece con il Timorasso, sparito dalla circolazione, sarei stato il primo. Saremmo stati unici. L’ho capito subito. Per come sono fatto, ho scelto la seconda strada, che poi è diventata quella maestra”. Continua: “Pensi, in Piemonte ci sono più di settemila ettari di barbera ma più della metà non ha dignità economica perché l’uva viene venduta a meno di un euro al chilo. Il timorasso ne vale 2.50, quasi il triplo. Tante aziende grazie a questo vino si sono viste catapultate su riviste importanti, con recensioni internazionali autorevoli”.
A chi gli chiede se avrebbe mai pensato di arrivare fin qui risponde: “Non l’avrei mai detto ma l’ho sempre saputo. Un mese fa siamo stati invitati a Mundus Vini, in Germania, ospiti insieme al Brunello di Montalcino. Un po’ di movimento c’è. Tanti hanno capito il potenziale del progetto e sono scesi in campo con me, a parte qualcuno con la testa dura. L’unione serve per muovere l’asse territoriale, dalla ristorazione agli altri prodotti complementari, fino all’arte. Abbiamo creato il gruppo ‘Uva: una valle di artisti’, dove si cerca di dare forza a Pellizza da Volpedo, Felice Giani, Piero Leddi, Barabino”.
Quando si parla con Massa la parola d’ordine è territorio, come fanno i francesi. Quel territorio che si è rivalutato a livelli impensabili. Un terreno crudo senza vigna vale 30mila euro a ettaro. “Le vigne non si vendono perché chi coltiva il timorasso ha in genere una visione di mercato e lo fa per lui, i figli, i nipoti, o comunque per un senso, detto questo c’è anche chi ha venduto e ha preso 200mila euro a ettaro”, racconta.
Per dare impulso al futuro della denominazione sono arrivati l’astigiano Rivetti (La Spinetta-Contratto), dal cuore delle Langhe Vietti, Borgogno, Viberti e molti altri nomi blasonati del vino, anche imprenditori dal vicino Oltrepò Pavese e da Ovada.
Massa non si tiene (gelosamente e stupidamente) le cose per sé. La sua è una visione internazionale di apertura del territorio a ciò che può fargli bene. Una predisposizione che si traduce nell’aiutare altri imprenditori a trovare gli ettari per impiantare vigne e costruire una cantina (alcuni progetti dovrebbero partire a breve). Il marchio Derthona (nome latino di Tortona) in uso al Consorzio, che racchiude la forza di un vitigno, un vino e un’area precisa, lo ha da subito condiviso con chi volesse far parte di un’idea. Oggi praticamente tutti. “Se lo avessi tenuto solo per me non saremmo qui a parlarne. Un mio amico, con un bel ristorante, mi ha detto che non comprerà più il mio Timorasso perché vuole produrlo lui. Sa cosa ho fatto? L’ho aiutato a trovare le vigne: farà anche lui Derthona. Il vino non è competizione, è far crescere un territorio”.
Secondo Massa tre sono gli ingredienti indispensabili: l’uva matura, il buonsenso e il tempo. “Il Derthona è sul mercato un anno dopo la vendemmia, dal settembre successivo. Mentre in Italia ci sono vini bianchi Docg che non hanno una data di nascita e potrebbero uscire prima del novello, il Derthona è un progetto ambizioso che parte nel 2000 con lo scopo di difendere il timorasso: quello che si coltiva qui ha una precisa connotazione e ha solo un alleato: Madre Natura. Siccome il Derthona ha bisogno di 2 grammi/litro di estratto in più dei vini bianchi normali e non sempre si possono fare, abbiamo scommesso sul Piccolo Derthona, che diventerà Doc prima della vendemmia 2024: un Timorasso più immediato, con meno pretese di alcol, che può essere sul mercato l’1 marzo successivo alla raccolta”. E la Docg? Frena: “Uno step alla volta”.
Ma c’è anche l’obiettivo, non tanto segreto, di collocare con dignità le vigne di barbera. “Col progetto Monleale, partito con me, la prima etichetta la feci nel 1987, non abbiamo paura. Oggi ci sono mille ettari di barbera: perché dovremmo toglierli per piantare timorasso? Per quanto mi riguarda, voglio usare il lavoro dei miei nonni per valorizzare tutto quanto hanno costruito. Non bisogna fare stravolgimenti ma adattamenti. Il timorasso si è adattato perché sono arrivati i tempi giusti. Quando andavo a scuola ad Alba, negli anni ’70, il re delle Langhe era il Dolcetto, che diventava moneta nel giro di pochi mesi, mentre il Barolo, che richiedeva un po’ di anni, era un debito. Il Barolo lo vendevano i marchi che riuscivano ad arrivare negli Stati Uniti. Guardi cosa è cambiato in trent’anni, cosa può fare il tempo. Anche il timorasso era un debito, perché produceva poca uva, mentre il cortese ne faceva molta ed era preso in considerazione”.
Nel bicchiere ci godiamo il Costa del Vento 2013: un vino che coniuga struttura, mineralità da Riesling ed eleganza, perfetto da bere ora ma con un futuro ancora luminosissimo davanti. Il Derthona di Massa fa solo acciaio e il Piccolo Dherthona non macera.
Vi vorrei raccontare anche la Barbera ma capisco che è un’altra storia (di senso e di terroir).
Cosa mi ha insegnato la giornata? Che i territori che vanno avanti sono quelli con le idee chiare sul proprio futuro, con un approccio culturale di territorio e, soprattutto, con pochi vini, uno o due, su cui puntare. Che la vita è fatta di scelte. E che il peso delle scelte bisogna essere in grado di sostenerlo. Un po’ come i figli: quando ne hai tanti da mantenere non lo puoi fare così bene.