Oggi, a Bolognafiere, il premio alla memoria Leonildo Pieropan è stato consegnato al vignaiolo simbolo d’Abruzzo, Emidio Pepe, tra i leggendari fondatori nel lontano 2008 della Fivi.

(In foto la figlia di Emidio Pepe, Daniela, con Lorenzo Cesconi)

Il Mercato dei Vignaioli Indipendenti 2023 (edizione n.12), che per la prima volta ha traslocato da Piacenza, sua sede storica, entra nel vivo  dopo aver registrato un successo – annunciato – di presenze. Ovunque è un andirivieni di carrelli come in un supermercato. I vignaioli indipendenti convincono sempre di più, sono percepiti come autentici, ci parlano con voce familiare. “I carrelli non  bastano. Ci sono clienti ormai amici che da Piacenza ci hanno seguiti a Bologna, alcuni scrivono prima per sapere dove siamo posizionati. Chi entra al mercato deve cercare i produttori, che non sono divisi per aree geografiche in modo da dare la possibilità a tutti di farsi conoscere. È un modo per far incontrare delle persone che magari non pensavano di incontrarsi. La gente vuole percepire quel rapporto diretto, fra produttore e cliente, che noi Fivi abbiamo mantenuto. Il salone non nasce per essere rivolto alla ristorazione, all’horeca, ma come vero e proprio mercato dove è sempre presente alla vendita almeno un vignaiolo o un membro della sua famiglia. Chi arriva qui a comprare o a salutare trova noi, non un fondo di investimento o una società di capitali”, racconta Gianmario Cerutti, enologo, vignaiolo tra gli iniziali cinquanta fondatori della Fivi. Cerutti è anche presidente dell’associazione che raggruppa i produttori del Canelli Docg, tradotto una quindicina di vignaioli indipendenti (oltre la metà) su  poco più di venti associati. “Al 2011 risale il primo mercato Fivi a Piacenza. Da allora è stato un successo in crescita esponenziale, soprattutto dopo i primi cinque o sei anni. Il mercato a Piacenza ci ha dato molta visibilità. Nell’ultima edizione abbiamo registrato quasi 30mila visitatori”.

(Il vignaiolo indipendente Gianmario Cerutti)

Oggi i vignaioli stanno cercando di promuovere la nascita delle delegazioni di zona in tutte le regioni e al loro interno in ogni distretto di una denominazione. “Le delegazioni sono gruppi locali per gestire le problematiche, legare la Fivi nazionale alla base e realizzare, un domani, eventi regionali. Langhe, Roero e Nord Piemonte hanno le loro. Stiamo cercando di crearne una nell’areale del Nizza e del Canelli, quindi nel Monferrato astigiano. Fivi è nata da una federazione nazionale ma vuole essere radicata sul territorio, che è la sua forza”.
Tutte le federazioni europee di vignaioli indipendenti, nove, sono federate nella Cevi (Confederation Europeenne des Vignerons Independants), che è accreditata a Bruxelles. “Come federazione italiana siamo, invece, accreditati al Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali. Fivi nasce non per vendere bottiglie, quindi a fini commerciali, ma è una vera e propria associazione di categoria riconosciuta dallo Stato. Fivi si pone l’obiettivo di difendere la figura del vignaiolo in Italia e in Europa. A fronte delle nuove azioni politiche della Pac del 2007-2008, che stavano penalizzando il piccolo artigiano, per evitare di essere considerati come indiani nelle riserve abbiamo deciso di uscire dalle vigne e farci rappresentare. I vignaioli indipendenti francesi si erano rivolti a Slow Food per veicolare ai produttori italiani la necessità storica di far nascere un’analoga associazione in Italia. Slow Food ci ha messi in contatto. In Europa, Francia e Italia sono i paesi del vino più importanti. Mancava una controparte italiana che andasse con loro ai tavoli di confronto europei per parlare la stessa lingua comune. Così siamo nati, da una riunione tenutasi a Pollenzo, all’Università di Scienze Gastronomiche. Sono uno dei probiviri. All’inizio eravamo in pochi a crederci: io, Costantino Charrere, che è stato il primo presidente, Leonildo Pieropan, Ampelio Bucci, Mario Pojer, per citarne alcuni. Tutti grandi uomini che a un certo punto si sono conosciuti”.
Fivi è un nome e una garanzia, ormai, nell’immaginario collettivo. Sono vignaioli sempre più biologici e biodinamici – oltre il 50% degli iscritti, come ha dichiarato il presidente Lorenzo Cesconi, anche se l’associazione ha lasciato libertà in merito – e più concentrati nel Centro e Nord Italia, per un totale nazionale di 1500 produttori, di cui 980 presenti a Bolognafiere. “C’è, forse, solo un 10% di aziende che non ha una sensibilità in tema di sostenibilità, che non fa almeno il primo passo, quello dell’agricoltura integrata. Così come c’è libertà dal punto di vista delle dimensioni aziendali. Può essere Fivi chi produce 5mila bottiglie come 100 o 500mila. Importante è che sia rispettata la filosofia del vignaiolo indipendente. Non ne tradisce lo spirito un’azienda agricola, per quanto grande sia, che ha degli ettari vitati, che ha fatto delle scommesse, che prevalentemente non compra uve se non in annate particolari, come per esempio quando grandina o, come nelle Cinque Terre o in Valle d’Aosta, dove non può crescere perché non c’è terra da acquistare e magari l’amico vignaiolo gli vende venti quintali d’uva per produrre duemila bottiglie in più. Ecco, per me quello è un vignaiolo Fivi. Io ho scritto il primo regolamento insieme al gruppo fondatore. È difficile tradurre su un foglio ciò che veramente conta, l’allineamento morale, come un vignaiolo vede il suo progetto di vita: c’è chi è più oltranzista, chi più permissivo. Si cerca di mettere qualche piccolo paletto, magari non perfetto, più che altro per tracciare una direzione. Fivi non ha mai fatto campagna acquisti. Chi vuole partecipa”.  Continua: “All’interno dei vignaioli ci sono famiglie che vivono solo di vino. Per entrare nell’associazione bisogna avere alla base della produzione le proprie uve, così come la possibilità di vinificare e imbottigliare. Un vignaiolo Fivi segue tutto il ciclo, dalla vigna al prodotto finito. Il regolamento non permette di essere socio alle società di società. L’imprenditore agricolo deve essere il proprietario e l’azienda il core business della sua vita. Il vignaiolo Fivi è una famiglia che ha puntato su questo progetto. Ci può essere anche l’avvocato che investe, ma ci deve essere una persona della sua famiglia che ha deciso di diventare imprenditore agricolo ed esserne responsabile”.
In questi giorni si dibatte molto sui vignaioli Fivi, che sarebbero tagliati fuori nelle scelte dei consorzi. È forse giunto il momento di rivedere il sistema produttivo vitivinicolo, considerato che i vignaioli Fivi contribuiscono in maniera a volte decisiva al buon nome di un territorio e di una denominazione? “È una problematica di regolamento nazionale ma anche comunitario a cui stiamo lavorando – spiega – affinché cambino le regole. Bisogna rivedere la rappresentanza, come  si vota all’interno di un consorzio, in modo da riequilibrare con coefficienti correttivi la partecipazione di un’azienda non solo in base ai numeri produttivi. È importante che non ci siano delle maggioranze già precostituite prima di entrare in assemblea. Questo non significa che i piccoli debbano comandare sui grandi, ma solo che ci sia la reale possibilità di farsi ascoltare. Tutte le componenti della filiera devono essere rappresentate e avere una quota di voti che permetta di esprimere la propria opinione”. Continua: “All’inizio ci hanno detto che eravamo troppo morbidi. In realtà, abbiamo sempre cercato di evitare il più possibile gli scontri fini a se stessi. Ci siamo dati da fare per entrare nella stanza dei bottoni, dove si prendono le decisioni, da Bruxelles al ministero. È facile essere contro qualcosa, bisogna anche fare delle proposte. Le nostre strade sono lente ma cercano di raggiungere concretamente dei risultati. Guardando in casa nostra, in Piemonte, nel consiglio direttivo del consorzio del Barbera siedono vignaioli indipendenti, in quello dell’Asti pure. Dipende un po’ dalle aree. In Piemonte siamo accreditati al tavolo regionale. Dove è  possibile i Fivi si sono mossi per sedere nei consorzi, per fare lobby in senso positivo, ma soprattutto per esserci laddove si possono portare idee. In Europa, dove si fanno le regole prima che si facciano le leggi in Italia, siamo presenti ai tavoli di discussione, ci mettiamo la faccia, non deleghiamo nessuno. È importante non lasciare lo spazio solo ai grandi gruppi, far sentire che ci può essere un altro modo di vedere le cose. In determinati contesti, la parola di un piccolo produttore può valere come quella di uno grande, può fare molto rumore”.