IL NOSTRO SOMMELIER AIS VI RACCONTA…

MONTELIO

La storia dell’Oltrepò Pavese, tra le vigne di Montelio. Siamo appena sotto Voghera, più precisamente nella località Codevilla, a ridosso delle colline che si affacciano sul fiume Staffora. A ovest, a vista d’occhio si sente già aria di Piemonte e qui incontriamo la storia più autentica di queste terre.
Entrando nell’antica corte, che “vive” come un borgo a sé, ci si ritrova improvvisamente dentro al passato. Un cortile dal rigore piemontese, che segna anche i trascorsi francesi di queste terre, testimonia inequivocabilmente che qui il vino lo si fa da secoli: un antico torchio, al centro del porticato, si mostra come un monumento, lasciato a vista grazie a una vetrata, anche verso l’interno dell’accogliente sala degustazioni.
Due secoli or sono, ai primi dell’800, Angelo Domenico Mazza, capostipite dell’attuale famiglia di Montelio, acquisisce dai francesi la tenuta che già Napoleone aveva voluto trattenere alle proprietà religiose. Sono i terreni dell’antica grangia, come era denominato il granaio, già appartenuto a un monastero che nei suoi archivi riconduceva alla coltivazione della vigna, su questi colli, già nel 1200.
Infatti, al di sotto di questa superficie intrisa di storia, dentro a ogni mattone degli edifici, troviamo un piccolo labirinto di cantine ove sono ancora presenti le prime botti costruite in cemento, facenti parte della struttura stessa di fondazione del casato superiore. Ci si sente davvero dentro al passato, muovendosi fra questi ambienti ove la luce entra solo come uno spiraglio. Così si arriva all’incantevole infernot, altra testimonianza che riconduce alle tradizioni piemontesi, la grande cella frigorifera di famiglia. Un gioiello nel sottosuolo, oggi destinata alla conservazione delle storiche bottiglie frutto di tante vendemmie e duro lavoro.
Una seconda corte, che oggi sembra la stessa borgata rurale del passato, appare davvero quasi inalterata e accoglie i mezzi agricoli in piacevole fermento, nel pieno della vitalità di queste persone, laboriose e rigorose, proprio come ci si aspetta.
La storia di Montelio, nome che deriva dall’ottocentesco edificio al vertice della limitrofa collina, passò attraverso momenti significativi, non solo per l’Oltrepò Pavese, come la nascita di un metodo classico in tempi lontani, quando ancora si poteva chiamare Champagne, e come, tra l’altro, testimonia l’etichetta ancora presente fra le memorie della sala degustazione.
E oggi quel metodo classico, con una nuova etichetta e un approccio vinicolo del tutto contemporaneo, rinasce grazie alla volontà del giovane Edoardo Scanavino, l’attuale generazione di famiglia, che assieme a Leonardo Valenti segue la conduzione enologica. L’azienda, dai tempi dei vitigni sperimentali impiantati da Mazza, fino alla lotta integrata dei giorni nostri, imbottiglia circa 75.000 bottiglie all’anno su 23 ettari in produzione, lavorando colline tutte di proprietà, adiacenti la struttura, fra i 140 e i 280 m slm. Ma a breve verrà aggiunta una zona più alta, intorno ai 400 m slm, con altri 2 ettari di vigna. Montelio non coltiva solo uve, infatti la tenuta si estende per una superficie di oltre 78 ettari coltivati a grano, legumi e piante officinali.
Le varietà di vite presenti sono tutte autoctone: Cortese, Riesling Italico e Renano, Moscato e Malvasia a bacca bianca; l’immancabile Pinot Nero dell’Oltrepò, poi Barbera, Uva Rara e Croatina. E nel 2009 sono state aggiunte anche 2.000 barbatelle di Uva della Cascina, un vitigno autoctono storico recuperato negli anni ’90, inizialmente dall’Università di Milano. Restano ancora alcuni filari di Müller Thurgau e Merlot voluti da Mazza nel Dopoguerra, mentre le uve Chardonnay sono entrate in produzione nel 1982.
Le etichette fra cui scegliere sono tante, tutte di recente nuovo disegno, fra cui 2 vini bianchi fermi, SERO e NULLA HORA rispettivamente da uve Cortese e Müller Thurgau in purezza, tre frizzanti (bianco, rosé e rosso), tre selezioni definite Autoctoni, rispettivamente da uve Riesling Renano, Bonarda e Uva della Cascina, tre rossi, ossia il MERIDIE da un blend di uve Barbera, Croatina e Uva Rara, il MANE da Barbera in purezza e il COMPRINO da uve 100% Merlot.
Si aggiungono 3 riserve con una bottiglia dalla sagoma originale: Pinot Nero Riserva COSTARSA, Rosso Riserva SOLAROLO da uve Barbera e Croatina e il Merlot MIROSA. Per quanto riguarda il metodo Charmat, il 17 FIORILE 1803, un Pinot nero rosato e LA STROPPA, da uve Cortese in purezza. Oggi però ci concentriamo sul recentissimo ritorno del metodo classico Montelio, non meglio identificato da una elegante etichetta con al centro lo scudo di famiglia e delle foglie di vigna argentate e dorate. Nulla più. Come dire parla il contenuto. Una etichetta semplice e austera, come del resto è Edoardo, che elabora e crea e non sembra perdersi in chiacchiere. Il 2018, prossimo ai 30 mesi di affinamento (sboccatura novembre 2021), ha un dosaggio di 3 gr/l che rende questo Pinot nero in purezza un vino ancora vibrante, espressivo e moderno. Dal colore giallo paglierino, con velature che rivelano ancora gioventù, questo metodo classico si sdogana da tanti altri monovitigno dell’Oltrepò Pavese, ma soprattutto si scrolla di dosso un passato troppo carico di zuccheri, guardando a un pubblico giovane con voglia di uscire dalle solite zone italiane di produzione delle bollicine nobili. Come dire, ricerchiamo sapidità finali, note agrumate e freschezza, per abbinamenti tradizionali come il vitello tonnato di eredità piemontese, ma si guarda anche a ricette contemporanee frutto di piacevoli contaminazioni, come un risotto mantecato al taleggio e rucola selvatica.
La visita a Montelio non può finire qui. Una nota di riguardo, ultima ma non ultima, deve andare – con sommo piacere, sia chiaro – a un gioiello pluripremiato della vinificazione italiana. Sto parlando del passito NOBLEROT. Il 2017 riceve le 4 viti AIS, che lo rendono una indiscutibile eccellenza. Frutto del taglio in percentuali quasi uguali di Malvasia e Moscato giallo, con circa 110 gr di residuo zuccherino, torchiato a mano dopo aver lasciato le uve in appassimento sulle piante e poi in soffitta, questo passito svolge la fermentazione spontanea in tonneau per 36 mesi. Il colore è ambra lucente e all’olfatto denota immediatamente note fruttate di albicocca, ma anche nocciole e un elegante caramello. Al palato passano le spezie che dal naso persistono fino alle fine: zafferano, sentori di cioccolato e vaniglia, con una viscosità che sembrava intravvedersi anche attraverso la sagoma della bottiglia molto particolare, con l’etichetta che si rivela solo se le dedichiamo attenzione. Il finale, come tutti i grandi passiti italiani è asciutto, invoglia a sorseggiare di nuovo, con una spiccata conclusione fresca e un eco di frutta candita. Oltre all’abbinamento con alcuni prodotti di pasticceria, mi sento di suggerire qualcosa di insolito: lo Strachitunt, antesignano del Gorgonzola, sempre per tornare alle origini, a quella storia austera di un’Italia che sembra non esistere più, laboriosa, ma gentile. E invece eccola qua, a Montelio, ieri, oggi e domani, più che mail attuale e longeva.