Qualche giorno fa si è celebrato in tutto il mondo l’Earth Day, con Greta Thunberg che ha tuonato “siamo indietro di decenni, non possiamo accontentarci di qualcosa solo perché è meglio di niente”, a proposito degli obiettivi che si sono dati i leader mondiali per fronteggiare il cambiamento climatico. Ma a che punto è realmente il nostro Paese nel recepimento dell’Agenda 2030 per la costruzione di un mondo in chiave più sostenibile e garantista dei giusti ritorni dei lavoratori soprattutto oggi che la crisi economica si è tradotta anche in crisi alimentare? Da più parti ci si interroga su quale sarà il ruolo di un comparto chiave come quello agroalimentare in questa complicata fase di transizione. Anche perché la sostenibilità, come ci insegna ormai da tempo il Nord Europa – dove i temi green non sono un pay off  e l’ecologia risiede prima di tutto nella mentalità, e ben prima dell’emergenza climatica – è uno dei driver che orienta e orienterà sempre di più le scelte dei consumatori con potere di acquisto.
Anticipatore dell’attuale concetto di sviluppo sostenibile fu Gifford Pinchot, che nel 1905 organizzò il servizio forestale negli Usa.  Conservazionista della natura (“politica fondamentale della civiltà umana”), coniò il termine “etica della conservazione” applicato alle risorse naturali: il fine era lo sviluppo e l’uso della terra e delle sue risorse per il benessere duraturo dell’uomo e per il progresso della nazione. L’uomo, però, doveva farne un uso consapevole, agendo con moderazione, per non lasciare alle generazioni future un mondo irrimediabilmente devastato. Ma cosa significa davvero sostenibilità ambientale, green economy?  “Solo” arrivare a emissioni zero nel 2050? Non usare prodotti convenzionali in vigna? Processi produttivi basati sempre più sull’economia circolare, con prodotti a ridotto impatto ambientale, comportano anche un ripensamento della dimensione interiore dell’essere umano, mettendo in primo piano il benessere psicofisico dell’individuo. Oscar Di Montigny parla addirittura di gratitudine, un concetto che rimette al centro di ogni sistema sociale l’essere umano: “Provare gratitudine e suscitarla negli altri sarà la via per costruire nuovi, rivoluzionari modelli sociali, culturali e di business. La gratitudine è l’essenza della coopetition:  integrazione fra competizione e cooperazione. È l’anima dell’innovability: legando indissolubilmente innovazione e sostenibilità. È l’elemento fondante l’Economia Sferica, il principio da cui tutto si genera e il destino a cui tutto tende; ed è ciò che fa dell’amore per gli altri esseri umani e per il pianeta l’atto economico per eccellenza. È tempo di riconoscere nell’essere umano la migliore delle tecnologie mai esistite sul Pianeta”.
“La viticoltura per me deve avere un atteggiamento osmotico, prendere e ricevere dal territorio, dare e pretendere, ma anche lasciare molto. Come le onde del mare che nel loro andare e venire portano e tolgono qualcosa. Non vedo in futuro una viticoltura diversa”, commenta Albino Armani. “Bisogna preoccuparsi di fare un grande vino ma di farlo anche grande da un punto di vista olistico, a 360 gradi. Deve essere un vino importante per un territorio, che dà qualcosa non solamente all’azienda e alla sua partita iva ma a tutti gli abitanti, ricevendo di conseguenza un supporto dal luogo. Vivere in mezzo alle genti, essere parte di qualcosa di più grande è il mio approccio al lavoro e alla vita. È necessario garantire il buono stato di salute delle specie animali e vegetali, tutelando il nostro immenso patrimonio di biodiversità e il funzionamento degli ecosistemi. Solo così avremo, di conseguenza, cibo sano e sostenibile”. Quella di Albino Armani è una case history di successo fra la Val d’Adige e il Friuli Venezia Giulia, passando per Casa Belfi, a San Polo di Piave, dal suo biodinamico spinto quasi all’estremo e da Marano di Valpolicella.  Paesaggi che sanno di antico e moderno, dove disintossicarsi dalle nevrosi di tutti i giorni, dalla continua connessione, che coniugano architettura, design, diritti civili, istruzione e rispetto. Una visione olistica, quella di Armani, tipica delle filosofie orientali, che, contrapposta al  riduzionismo, fa sua un’unità di corpo, spirito e mente, con direttore d’orchestra l’anima: se sostituiamo uno strumento, la musica nel suo insieme non è più la stessa. Il buon funzionamento del sistema non può essere compreso tramite singole parti ma dalla loro sommatoria, e questo la pandemia ce lo sta spiegando molto bene. La crescita di un sistema produttivo, dalla vigna alla cantina, deve mettere al centro l’uomo per una vera sostenibilità ambientale, economica e sociale. “Il tanto discusso legame vitigno e territorio per me è imprescindibile. Chi viene qui a visitare i posti dove lavoro, lo intuisce subito. Vivere in certi luoghi di estrema  bellezza ci costringe ad avere un approccio diverso, di maggior cura e attenzione, un po’ come entrare in un luogo che ha una sacralità ci impone certi atteggiamenti di rispetto. Io sono nato in luoghi che hanno una fortissima personalità, ai piedi del Monte Baldo, dove era obbligatorio il rapporto o meglio l’integrazione fra uomo e ambiente e la conservazione del territorio in un modo che potrei definire gentile. Si viene educati fin da piccoli a una coscienza, più che a un rispetto, nei confronti dei luoghi e della gente che a quei luoghi appartengono. Questo si trasla nel lavoro che faccio e credo che sia un elemento descrittivo costante di tutte le nostre azioni in Valpolicella, in Val d’Adige, in Friuli, nella marca Trevigiana, sul Monte Baldo. E si trasla nei miei viaggi estremi in giro per il mondo a contatto con una natura selvaggia e con le sue popolazioni”.

“Sono uscito per fare una passeggiata e ho finito per stare fuori fino al tramonto del sole, perché andare fuori, mi sono accorto, in realtà significava andare dentro” (John Muir)

“La sostenibilità è sempre una conseguenza della responsabilità, di una coscienza per valori individuali e collettivi che in un contesto rurale marcano l’esperienza, attribuendole un valore culturale e identitario fortissimo. Chi semplifica molto, come se fosse nel ‘Favoloso mondo di Amelie’, pensa alla sostenibilità come eliminazione di due o tre principi attivi dei diserbanti e poco altro, ma questo è un approccio banalizzante e consumistico di tutto il lavoro a monte che fa un agricoltore come un imprenditore per sostenere e mantenere un territorio. Siamo stati premiati, insieme ad altre cinque realtà vitivinicole nel mondo, con il Global Best of Wine Tourism Award, il concorso del turismo enologico per cantine che presentano standard di eccellenza, abbiamo anche una certificazione SQNPI. Oggi, però, non  è sufficiente dirsi biologici o biodinamici, avere una certificazione o un bollino che descrivono un percorso ma a volte ne semplificano i concetti. Deve  esserci una crescita collettiva, deve uscire vincitore un territorio non una azienda. È l’approccio alla vita, prima che al vino, che deve essere sostenibile e per esserlo veramente in un certo mood bisogna essere nati. Se tutto questo si chiama enoturismo va bene, importanti, però, non sono le etichette ma i contenuti, far passare delle emozioni”.
Ma cosa significa far del bene a un territorio? L’affondo: “Agire in ambiti che non sono prettamente enologici, viticoli o ambientali ma anche politici. Sostenibile significa intervenire laddove ci siano aberrazioni, vuoi di disciplinari vuoi di gestione dello stare insieme nell’ambito sindacale. Le cointeressenze possono elevare i destini di un territorio rendendolo anche economicamente sostenibile. C’è una sostenibilità economica e soprattutto sociale che obbliga gli imprenditori ad impegnarsi in ambiti che di per sé risultano scomodi e invisi ai più. È sufficiente sentirsi bravi enologi o agricoltori e non interessarsi degli ambiti collettivi, sindacali, politici di un’area? È sufficiente fare un ottimo vino, essere responsabili in vigna e magari non interessarsi della propria  denominazione, dell’andamento di una doc, di come vengano gestiti i disciplinari all’interno, di quali siano gli strumenti di governance? Bisogna uscire dalla comfort zone ed entrare in un ambito diverso. E questo è altrettante coinvolgente che star dietro a una potatura, a un travaso, a un imbottigliamento perfetto, a un uso dei legni consono”.
La Val d’Adige, con i suoi parchi eolici, è un territorio sempre più sostenibile e da vivere in bici. La ciclabile Adige Terra dei Forti, comoda e prettamente pianeggiante, è immersa per il 70% dei suoi 25 km nei vigneti di pinot grigio e foja tonda, spesso costeggiando l’Adige. Si estende da Volargne a Borghetto d’Avio, dove volendo si può continuare con la ciclopista del Sole fino a Trento, in un contesto naturalistico votato a ritmi slow, fra il Baldo da un lato e i Monti Lessini dall’altro. Nel suo ultimo tratto, prima della Valpolicella, la Val d’Adige prende il nome di Terra dei Forti, per via dei numerosi castelli medievali, fra cui i quattro forti della Chiusa di Ceraino. Qui si produce il Valdadige Terradeiforti. “La Chiusa di Ceraino, comunemente indicata come uno dei confini principali tra Valpolicella e Val d’Adige, è un canyon fantastico in cui il fiume è costretto a percorrere una spettacolare gola dove forma un paio di strette anse. L’Adige passa in un percorso tortuoso fra due ammassi di calcare oolitico, resistente all’erosione. Siamo nell’estremo sud del Trentino e nell’estremo nord veronese. Qui si trovano i nostri vigneti”, spiega Armani.
Tra Avio e Dolcé, un cippo (“che ha un’importanza enorme per me, la mia famiglia e il mio modo di stare alle cose”) testimonia ancora l’antico confine fisico fra Austria e Italia, nello scenario dominato dal Monte Baldo, un massiccio montuoso tra la Val d’Adige e la riva orientale del Lago di Garda. Qui incontriamo il fascino di un vigneto di viti centenarie, veri e propri monumenti di enantio (che già Plinio conosceva nella sua Naturalis Historia) e casetta, vecchie foglia frastagliata e foja tonda, con un sistema di allevamento arcaico e con distanze fra i filari anche di 10, 12  e perfino 16 metri “che consentivano alle nostre famiglie di inserire colture intercalari che potessero sostenerle. Il sistema di riproduzione di queste piante prevede che venga interrato uno dei tralci, in dialetto ‘trattore’, senza portainnesto, perché sono terreni sabbiosi e non c’è pericolo di fillossera”.
E poi l’ambizioso progetto della Conservatoria dedicato ai vitigni autoctoni. “Partì a titolo sperimentale più di vent’anni fa, grazie all’aiuto di alcuni appassionati della Fondazione Mach dell’Istituto Agrario di San Michele all’Adige, dove mi sono formato, con il recupero di undici varietà completamente estinte o comunque quasi introvabili che facevano parte della nostra viticoltura della Vallagarina. Dopo anni e anni di studio e prove di vinificazione due sono state poste in bottiglia, il foja tonda e la nera dei baisi. Su quest’ultima sto ancora studiando. Il concetto di conservazione fa parte della sostenibilità allargata, che deve prendere in carico anche la memoria di quello che non c’è più, di quelle che erano le strade percorse dai nostri vecchi. In viticoltura è un errore abbandonare tutto per il nuovo, per una enologia magari moderna, con sistemi di allevamento perfetti, con cloni super performanti. Bisogna ricordarsi di quello che c’era. La Conservatoria è una fotografia perfetta di quello che era la viticoltura e di conseguenza la coltura della mia famiglia. Oggi dal punto di vista genetico c’è la possibilità di coltivare peverella, vernazza, vernazzola, negrara, corbina, corbinella turca, nomi che non si sentono più. In totale sono undici ettari di vigneto, dove la parte del leone la fanno il foja tonda e la nera dei baisi. Sono più di trent’anni che lavoro in Val d’Adige sui vitigni dimenticati e oggi lo stiamo facendo anche in Friuli ricercando e studiando piculit neri, ucelut, sciaglin”.  
Un mondo sostenibile che la pandemia ci mostra come unica strada percorribile per ripartire prima dalla crisi, pena l’estinzione, ma che per alcuni ha sempre fatto parte di un modo preciso di essere. Evocando Vico e andando indietro nel tempo, ai giorni dei nostri nonni o bisnonni, la società era basata sul concetto del “non si butta niente, ma si recupera”. I nostri vecchi in povertà recuperavano il cibo, i vestiti, le relazioni umane e le bici rotte. Tutto. Nei fatti sono stati i precursori dell’economia circolare, oggi uno dei principali motori di business legato alla green economy. L’economia circolare vista non come rivoluzione culturale della società moderna ma come necessità che trova le sue radici nella saggezza degli avi. Un ritorno al futuro. O al passato. A seconda dei punti di vista.