Anche se non si direbbe il 50% del vino prodotto in Piemonte è bianco, complici suoli limosi che si prestano a una vocazione bianchista. Moscato, Timorasso, Chardonnay – con ottimi risultati-, in gran spolvero l’Erbaluce, ma anche il Gavi, l’Arneis, il Nascetta. Nei primi articoli legati al Piemonte ci concentreremo sul Moscato d’Asti, dove la nuova Docg Canelli, che oggi indica solo una sottozona, è quasi una realtà anche a Bruxelles. E ne parleremo non nella versione spumante ma nelle due versioni che in questo momento stanno ravviando il mondo del Moscato: il Moscato Canelli, massima espressione del Moscato a tappo raso dolce, che sta diventando appunto una Docg, e il Moscato secco, vinificato fermo grazie a un’associazione molto vivace di giovani imprenditori determinati, che sta proponendo una versione innovativa, forse anarchica per il territorio.
Il nostro primo stop & go in Piemonte è a Canelli all’azienda L’Armangia, filosofia FIVI, proprietario ed enologo Ignazio Giovine, la cui famiglia è presente sul territorio già dal 17°secolo. Ignazio, mano bianchista – ma anche sui rossi sa dire la sua -, quando lo raggiungiamo in cantina, quasi ai Santi, sta finendo la vendemmia tardiva, sta per imbottigliare il Moscato e sta svinando la Barbera. Nonostante la mole di lavoro – in totale  produce 105mila bottiglie – trova tempo per una mini verticale di Moscato. Verrebbe da dire che gioca facile a Canelli, con una diversificazione dei suoli, un microclima, un’esposizione decisamente favorevoli allo sviluppo della vite e un paesaggio dalla bellezza mozzafiato scolpito dai sorì, pendii scoscesi soleggiati, anche se alla fine non è neanche sempre vero che da un grande territorio si riescano a tirar fuori per forza grandi vini. In questo caso le due cose combaciano. “La vinificazione dei rossi la facciamo all’esterno perché abbiamo il controllo della temperatura, all’interno vinifichiamo i bianchi. Per quanto riguarda, invece, l’affinamento dei bianchi siamo sui 12 °C con l’85% di umidità, per i rossi fra 13 e 19 °C con il 70%, condizioni diverse per vini diversi”, spiega.
Quattordici le etichette spalmate su undici ettari, una frammentazione che funziona perché “c’è una parte del mercato che cerca vini mirati, i generici si vendono su canali diversi. La Gdo non riusciamo a farla perché non abbiamo né i numeri né la tipologia adatta”.
Partiamo dal nome: L’Armangia, che in dialetto piemontese significa rivincita, una sfida a riportare la fama di Canelli al livello delle grandi capitali mondiali del vino, scrostando l’immagine industriale sedimentata negli ultimi decenni.
Oggi Ignazio e la moglie Giuliana (“più due dipendenti che sono ormai di famiglia”) gestiscono terreni nei comuni di Canelli (coltivati per l’85% a bacca bianca), Moasca (Nizza, Barbera d’Asti, Albarossa, più due piccoli appezzamenti di Dolcetto e Chardonnay) e San Marzano Oliveto (Nizza). I suoli sono molto  diversi: a Canelli limo e calcare mantengono l’acidità nel tempo, motivo per cui i bianchi di Canelli e il Moscato in primis hanno una vita lunga; argilla e calcare a San Marzano regalano più struttura “con il calcare che spinge sui profumi”; a Moasca due i versanti, uno di argilla gessosa e l’altro sabbioso, limoso e abbastanza calcareo, il risultato “sono vini molto diversi a distanza di venti metri”.
L’azienda non è certificata bio ma sostenibile, “la certificazione più blanda, anche se quest’anno siamo stati addirittura sotto il 50% dei trattamenti ammessi in bio, quindi siamo oltre il bio. Sto pensando di togliermi dalla certificazione sostenibile perché sta diventando più un teatrino di fogli di carta e un carosello di controlli. Tengo la certificazione solo per quanto riguarda i vigneti e i trattamenti ma non per il logo sostenibile in cantina. Tanto il vino lo vendo lo stesso e la gente penso che ormai si fidi di me”, dice Ignazio.
A seguire, una degustazione di bianchi e rossi, una mini verticale di Moscato e un finale con una vendemmia tardiva da urlo. “Pur non essendo in Borgogna cerco di portare i miei bianchi in quella direzione: non ho zuccheri residui, ho delle acidità sempre abbastanza vive e prediligo i vini che durano nel tempo. Non sto dicendo che il mio sia uno Chardonnay uguale a quelli di Borgogna, perché cambia il terroir, ma sto dicendo che piuttosto che andare verso lo stile californiano scelgo la Borgogna”.
Canelli regala vini che durano vent’anni e più ma quando sono giovani non sono più di tanto espressivi. I primi due bianchi degustati non sono ancora pronti, pur intuendone le potenzialità. Troppo giovani. Il primo, un Monferrato Bianco, l’EnneEnne 2020 (“è la quinta bottiglia che apriamo per una degustazione”), da uve sauvignon, fresco e morbido al tempo stesso, è un Sauvignon che non ci si aspetta pur conservandone alcuni tratti. Spiega Ignazio: “È vinificato come se fosse un qualsiasi altro vitigno, quindi no a lieviti australiani, a una fermentazione a 13 °C, alla protezione con l’azoto, al contrario viene vinificato a contatto con l’ossigeno come se fosse uno Chardonnay o un Cortese e il 20%  della massa fa fermentazione in legno e affinamento per 3 o 4 mesi, a gennaio facciamo l’assemblaggio tra legno e acciaio, segue imbottigliamento tra febbraio e marzo. Abbiamo fatto una verticale fino al 1996 con Bruno e Andrea Castelli”, spiega.
Il secondo vino degustato è il Robi & Robi 2019 (“Roberta è mia sorella, Roberto mio cognato e il don che li ha sposati, quindi sarebbe Robi Robi e Robi”), uno Chardonnay di grande carattere, invecchiato per 9 mesi in barriques da 300 litri sui lieviti e con batonnage, più un mese in acciaio con tutte le fecce e con batonnage due volte al giorno, fermentato a bassa temperatura e alta umidità. Un vino che ha bisogno di tempo per esprimersi. Il 2019 non è pronto, lo sarebbe stato il 2016.
Più pronto degli altri due è una super chicca annata 2017, ancora senza etichetta, 50% roussanne e 50% marsanne (due vitigni tradizionalmente coltivati nel Rodano settentrionale), vinificati con pressatura soffice, flottazione, aggiunta di lieviti e in barrique di secondo passaggio da 350 litri. Ciò che ci piace è che l’alcol non si sente, i dieci mesi in legno neppure: un vino che non è mai pronto. “Sono un patito dei bianchi, cerco nuovi stimoli per farmi piacere un lavoro piuttosto pesante. Sono piccole sfide. Non sarà il nostro vino bandiera, ma sicuramente una produzione limitata”.
Segue una mini verticale di Moscato d’Asti Canelli 2021, 2020, 2017, 2015 che ci fa capire che il Moscato si può bere giovane ma che aspettando si beve qualcosa di diverso. “Con l’evoluzione cambia il carattere del vino in meglio. Non c’è un Moscato al mondo fatto senza aggiunta di zuccheri e di alcol che possa durare come durano i nostri. Ho bevuto dei Moscato in California che non erano cattivi, ma gli manca la salinità, che qui c’è, e che è ciò che asciuga la bocca”, continua Ignazio. Il 2021 è in bottiglia da una settimana ed è quello che non bisognerebbe bere vista l’estrema gioventù, però Ignazio azzarda proprio per farci capire le potenzialità evolutive del vitigno nella sottozona Canelli. Il 2021 non ha tirato fuori ancora il carattere del Moscato: si fa sentire al palato, ma il naso è ancora chiuso. “Il 2020 inizierà a chiudersi verso gennaio o febbraio nei suoi profumi freschi cui siamo abituati, fra sei mesi o un anno non sarà interessante perché non sarà fresco e non avrà raggiunto ancora una terziarizzazione, dopodiché si aprirà con un ventaglio di profumi completamente diverso che si amplierà man mano che l’invecchiamento procederà facendolo assomigliare sempre più a un Riesling, quindi troveremo idrocarburi, citronella, il marcatore della salvia e frutti tropicali, come nel 2015, dal profilo molto classico e dal tipico carattere della sottozona di provenienza, che gioca su due binari: morbidezza e acidità che smorza la dolcezza. La vendemmia non esageratamente calda ha permesso al vino di mantenere freschezza e velluto. Sono stato un po’ più alto con l’alcol per ridurre il contenuto zuccherino. L’evoluzione verso il Riesling si evidenzierà più avanti. Il vigneto, fra 220 e 260 metri di altitudine, esposto a sud-est, grazie a una ventilazione costante consente una maturazione graduale delle uve”. E sottolinea: “A Canelli la superficie esposta a sud è un terzo di quella esposta a nord. L’esposizione a sud va bene solo se il vigneto è ventilato. La nostra vigna più vocata è Castellero, in un sud pieno ma appunto ventilata e con terreno limoso e argilloso, la classica terra bianca da Moscato con tufo sotto. “Il Moscato deve soffrire nel calcare ma avere l’acqua. Se lo metto in un’argilla calcarea senza tufo non viene bene”.
Solo 1200-1500 bottiglie per una vendemmia tardiva, annata 2020, il Mesicaseu, da appassimento in pianta che dura un mese un mese e mezzo. Un vino botritizzato di grande complessità aromatica, 75% Moscato e 25% Chardonnay, non troppo dolce, più giocato su freschezza e acidità, con frutta riconoscibile, carattere pulito. Non è Sauternes. Spiega: “La botrite si governa in un altro modo. Non tutte le annate, con il nuovo clima, ci danno la possibilità di avere la botrite, alle volte si fa solo un appassimento, ma quando l’annata promette bene ecco i risultati. Qui abbiamo al massimo un 30-40% di botrytis. Lo Chardonnay è colpito da questa muffa nobile in modo più regolare del Moscato. È un vino che fa quattro giorni di macerazione prefermentativa a freddo, fermenta molto lentamente, così si ammorbidiscono le bucce e gli acini appassiti che poi sono mandati in pressa. La fermentazione avviene per il 30% in legno e il 70% in acciaio. Con l’invecchiamento i profumi sono più pungenti, virano sul tropicale, e altro non so perché lo beviamo sempre prima”.
Concludiamo con due fuori programma: la Barbera d’Asti 2020 Sopra Berruti e il Nizza Titon. Il primo vino, in bottiglia da tre mesi e mezzo, è un assemblaggio di due vigne di barbera, una a Canelli e l’altra a Moasca. Il 30% delle uve di Moasca fa affinamento in botti di rovere francese per sette mesi. L’idea è ricreare la Barbera apparentemente fruttata e leggera che si abbina a tutto pasto e che in passato era vinificata solo in acciaio, la differenza è che in questo caso si tratta di uve diradate e c’è un parziale affinamento in legno per un vino che ha una durata maggiore nel tempo rispetto a una Barbera classica che magari dopo tre anni rischia di perdere i profumi. Qui, invece, si amplificano con gli anni. Un gioco di equilibri fra i profumi di frutta di Canelli e la struttura e la rotondità di Moasca.
Il Nizza 2019 Titon, molto giovane (“ma il 2018 è finito”), è un assemblaggio di tre vigne di barbera a San Marzano Oliveto: due sono più giovani e regalano un vino più potente e colorato che fa affinamento in barrique da 300 litri sui lieviti, con batonnage; la terza vigna, circa il 55% del vino, la più vecchia, fa botte grande. Dopo un anno viene tutto assemblato e seguono altri 5-6 mesi in botte grande. Una Barbera, quindi, maturata prevalentemente in botte grande, che va bevuta fra i tre e gli otto anni e che ha la stabilità del colore grazie all’affinamento in barrique. “Il colore stabile mantiene i profumi freschi per più tempo”, conclude.
Torneremo sul territorio – direi proprio di sì! – per parlarvi degli spumanti.