Ieri la distensione Usa – Cina con la stipula del mini accordo commerciale, ma sull’Italia la spada d Damocle continua a pendere. Se venissero applicati i super dazi la situazione per le esportazioni agroalimentari e di conseguenza per la salute delle stesse aziende italiane sarebbe tragica, essendo gli Usa il primo mercato di riferimento oltreoceano. Settimana decisiva: il commissario al Commercio Phil Hogan è in missione negli States per trattare con il responsabile del Commercio americano Robert Lighthizer e cercare di scongiurare l’ennesimo attacco commerciale al made in Europe. Nel mirino dei dazi anche olio, vino e pasta italiani, beni che valgono oltre la metà dell’intero export agroalimentare del Belpaese oltreoceano, col rischio di renderli non più competitivi sul mercato Usa. Ne parliamo con Giuseppe Sarcina, storico inviato da Washington del Corriere della Sera, nel tentativo di far luce sull’intricato quadro americano di politica economica che si sta delineando in questi giorni. A pagarla cara, dopo Francia e Spagna, sarà quindi anche l’Italia?

Giuseppe Sarcina, facciamo chiarezza sulle tempistiche di pronuncia sui dazi del governo americano…

Si è appena chiusa la fase di consultazione pubblica sull’opportunità di rivedere il valore dei dazi, che possono aumentare del 100%, e la lista dei prodotti colpiti. Dopo il 18 ottobre scorso, quando il governo americano pubblicò la prima lista di dazi comunque entrati in vigore, si avviò una fase di consultazione chiedendo a tutte le parti in causa di inviare la proprie osservazioni entro il 13 gennaio 2020. Fra le domande sottoposte, per quale motivo i dazi sono dannosi per l’economia, sono iniqui e così via. Ora la previsione è che l’amministrazione pubblichi una lista aggiornata dei dazi, teoricamente potrebbe rimanere anche la stessa, entro il 15 febbraio, a circa quattro mesi dall’applicazione delle prime tariffe maggiorate. Ma non ci sono certezze, perché l’amministrazione potrebbe decidere di accorciare i tempi e fornire quanto prima notizie in merito all’istruttoria. Il mondo vinicolo italiano è sul chi va là. Questa è una fase di cruciale importanza perché tocca alle diplomazie dei vari paesi farsi avanti per cercare di limitare l’impatto dei dazi sui rispettivi prodotti nazionali. A ciò si aggiunge il fatto che Phil Hogan, arrivato martedì a Washington, dove rimane per tre giorni, sta discutendo, oltre che su tutte le altre questioni in agenda, anche sui dazi che ovviamente sono collegati alla sentenza della Wto a carico dell’Ue per aiuti al consorzio produttore di Airbus. Sentenza che ha autorizzato gli Usa ad applicare i dazi per un limite massimo di 7,5 miliardi di dollari. Nell’ambito di questo pacchetto c’è anche la parte che riguarda l’Italia, che al momento si aggira sui 450 milioni di euro. 

Come si sono mossi finora le istituzioni europee e il governo italiano?

Da quello che posso dire da questo osservatorio di Washington, il governo italiano si è mosso soprattutto attraverso la diplomazia italiana, molto attiva. Da mesi sta svolgendo una doppia azione: da una parte incontri e colloqui con l’amministrazione, in particolare con l’ufficio di Robert Lighthizer, figura di riferimento della politica commerciale negli Stati Uniti, consigliere della Casa Bianca, noto per la sua posizione intransigente e per la sua teorizzazione dell’American first, che comprende anche l’imposizione di dazi per raggiungere gli obiettivi economici e commerciali americani; dall’altra parte, un coordinamento fra le diverse associazioni produttive italiane sta cercando di tessere alleanze con alcuni produttori e distributori americani. E il motivo è semplice: i dazi non danneggiano solo i produttori italiani ma potrebbero danneggiare anche i distributori americani e in qualche caso gli stessi produttori americani, che temono che il loro mercato possa essere sconvolto dalla penalizzazione e dall’aumento generale dei prezzi. Il conto dei dazi viene pagato dai consumatori americani in ultima analisi, però questo significa che i distributori americani possono incontrare più difficoltà nel piazzare i propri prodotti sul mercato proprio perché i prezzi sono più alti. I distributori americani sono in qualche modo gli alleati naturali dei produttori italiani, e non solo italiani.

Come andrà a finire la partita? Sarebbe possibile un accordo in questo momento così delicato per gli equilibri commerciali mondiali?

Devo scomporre la domanda in diverse parti. La partita sull’Airbus, e quindi questo pacchetto di dazi, andrà avanti. Probabilmente gli americani non faranno marcia indietro, ci saranno altri dazi. L’unico obiettivo realistico è quello di limitare i danni, questo vale soprattutto per le eccellenze agroalimentari italiane. C’è poi un’altra questione che si innesta, ossia che tra qualche mese la World Trade Organisation (Wto), ma la tempistica è diventata imprecisa perché l’organizzazione stessa non ha i giudici necessari e si è creata pertanto un po’ di confusione, dovrebbe pubblicare un’altra sentenza, simmetrica all’Airbus, che andrebbe a punire i finanziamenti americani alla Boeing e quindi in questo caso autorizzerebbe l’Ue ad applicare dazi contro le merci americane. Potrebbe verificarsi più avanti la situazione che gli americani puniscono i prodotti europei per l’Airbus e gli europei puniscono gli americani per la Boeing. Questa questione il presidente Mattarella l’aveva sollevata durante la visita negli Usa lo scorso autunno, richiamando le parti all’attenzione, sul perché aspettare. Mattarella aveva proposto di togliere i dazi e cercare il dialogo in vista di un accordo, considerato il fatto che entrambi siamo puniti dalla Wto. Al momento questa strada è stata scartata dall’amministrazione americana, però possiamo pensare che torni sul tavolo quando la Wto pubblicherà la sentenza sulla Boeing. Nel frattempo gli americani fanno finta di nulla, ci giocano finché non arriverà nero su bianco l’altra sentenza. Sono in una posizione oggettiva di forza e la fanno valere, vanno avanti a muso duro. L’altra questione è quella della web tax, la tassa sui big di internet, che è stata applicata dalla Francia e ora con la nuova legge di bilancio anche dall’Italia, anche se con una formulazione differente rispetto a quella francese. Gli americani contro questo provvedimento hanno già reagito con una serie di dazi che vanno a colpire i francesi con un pacchetto di circa 2,5 miliardi di dollari. Tutti questi problemi cosa ci raccontano? Di una difficoltà di rapporti commerciali tra Stati Uniti e Unione europea, difficoltà di arrivare a un accordo complessivo. Il motivo più importante è che gli americani vogliono inserire in questo accordo i prodotti agricoli americani, in particolare la carne, la soia e altri che sono trattati con Ogm. Alcuni paesi europei sono ferocemente contrari ad aprire il mercato europeo ai prodotti agricoli o agroindustriali americani oltre una certa soglia. Questa è la difficoltà di fondo che al momento sembra ardua da superare e quindi è complicato immaginare un accordo complessivo tra Usa e Ue, almeno finché Trump rimarrà alla Casa Bianca.

L’elettorato di Trump cosa si aspetta da lui? Come potrebbe reagire all’applicazione di dazi ulteriori nei confronti della Ue?

Trump prende voti dappertutto tranne che sulle due coste del paese. Li ha presi soprattutto nel Nord industriale, come Michigan, Wisconsin, Pennsylvania, e questo ha giocato a suo favore nel 2016. Anche se va ricordato che ha perso per numero di voti, perché la signora Clinton ne ha presi quasi tre milioni in più contando in generale le schede, ma come sappiamo negli Usa c’è un sistema elettorale particolare che tiene conto anche dell’assetto federale, quindi contano gli equilibri, questo per impedire che il presidente venga scelto da cinque o sei grandi stati e tutti gli altri non abbiano alcun peso. Le prossime elezioni ci saranno il 3 novembre del 2020. Gran parte delle categorie colpite dai dazi, in particolare dai dazi cinesi, sono elettori di Trump, quindi gli agricoltori, le piccole imprese e così via. Agli agricoltori che erano stati penalizzati dai contro dazi cinesi su soia e carne di maiale l’amministrazione ha già distribuito un sostanzioso pacchetto di aiuti, paragonabile a quello che Obama passò alle banche durante la crisi finanziaria del 2008. Così facendo quella che poteva essere una rivolta del Midwest è stata messa a tacere. Ma il nervosismo in stati come Iowa, Indiana, Kansas e nel resto del Midwest comunque permane. Nello stesso tempo Trump deve fronteggiare la protesta delle grandi imprese, delle multinazionali che sono danneggiate dai dazi, soprattutto quelle dell’hi-tech della California, così come le grandi società di manifattura americana. Finora il tema caldo è stato la Cina, ma dopo l’accordo di Fase 1 appena firmato la protesta delle multinazionali si dovrebbe alleviare.

Ma i territori viticoli, come Napa e Oregon per esempio, non hanno interesse all’applicazione dei dazi sui prodotti europei?

Ci sono delle lobby americane che sono favorevoli all’applicazione dei dazi, come quella del formaggio, perché questi produttori si sentono penalizzati sui mercati europei. Sul vino il discorso è un po’ più complicato. Gli stessi produttori di vino americani in questo momento si sono espressi contro i dazi perché alcuni sono anche distributori, altri hanno investito in Europa e ci sono investimenti europei negli Usa. Il settore è molto intrecciato. L’aumento dei prezzi dei vini europei metterebbe in difficoltà i distributori che sono gli stessi cui fanno riferimento i vini americani. Il timore è che possa calare in generale la domanda di vino. La situazione va monitorata con attenzione. Ne potrebbero approfittare produttori di altri paesi, ad esempio argentini, cileni e australiani già presenti sul mercato americano e che pertanto andrebbero a consolidare la loro posizione.

Paradossale che l’Italia si trovi nel mirino del suo storico alleato: l’Ue appoggiò gli Usa per le sanzioni alla Russia, che come ritorsione pose l’embargo totale su molti prodotti agroalimentari e che costò al made in Italy oltre un miliardo in cinque anni.

La questione dell’Ucraina è anche europea. Prima l’annessione della Crimea e poi l’invasione da parte della Russia del Donbass ucraino sono questioni che riguardano tanto l’Europa quanto gli Stati Uniti, forse più l’Europa che gli Stati Uniti. Quindi quella decisione di porre i dazi alla Russia fu condivisa politicamente anche dai paesi europei. Certo gli italiani si sono trovati in mezzo, forse più penalizzati di altri proprio perché hanno un patrimonio agroalimentare di grandissima qualità. Però distinguerei i due aspetti. Quello che si evidenzia in maniera inconfutabile è una difficoltà di rapporti tra Usa ed Europa. Sembra che sia più difficile per gli americani trattare con noi, che siamo storici alleati, che non con la Cina. Questo è un dato paradossale. Oggi si avverte l’esigenza di costruire un’architettura di regole standard fra i diversi paesi nel campo del commercio. Per molti anni l’Ue, e lo ha detto, si è barricata sui mercati, aprendo poco o nulla, per esempio, ai prodotti dei paesi in via di sviluppo, paesi da cui sono poi partiti molti migranti. Questo atteggiamento andrebbe rivisto, così come andrebbe tutelata in misura migliore e più efficace la qualità dei prodotti, un discorso che tocca molto l’Italia perché la qualità delle eccellenze dei prodotti italiani, come il formaggio per esempio, non può essere paragonata con quella dei prodotti americani: il Parmigiano Reggiano è una cosa e il Parmesan un altro mondo.

È stata fallimentare la politica dell’Ue finora?

Con gli americani abbiamo dei problemi, ma con i canadesi no perché abbiamo siglato un accordo che sta dando ottimi risultati ai produttori italiani. Con altri paesi, invece, si sta ragionando. Più che fallimentare è l’inizio di un percorso di apertura in cui le vecchie regole della Wto, che interviene a babbo morto, vanno superate.