La Cina taglia i dazi su 75 miliardi di dollari (circa 68 miliardi di euro) di prodotti Usa importati ogni anno e intanto prosegue il recupero delle borse dopo i ribassi dettati dai timori legati alla diffusione del coronavirus. Questo è il primo passo della Fase uno, accordo firmato lo scorso 15 gennaio, che vale 200 miliardi di dollari ed è pari al controvalore delle merci americane che la Cina si impegna ad acquistare nei prossimi due anni. La decisione sarà concretamente operativa da metà febbraio e segna il primo atteso step della tregua commerciale tra le due superpotenze. La preoccupazione generale è che nasca un nuovo blocco Usa-Cina contro l’Ue. “Assolutamente no. Si tratta di una dinamica a più fattori che si confrontano in uno scenario geopolitico in evoluzione”, spiega Filippo Fasulo, direttore del Centro Studi (CeSIF) della Fondazione Italia Cina. “Ci potranno essere fasi che ci danneggeranno come fasi di cui beneficeremo, dipenderà dalle negoziazioni. Fino a pochi mesi fa i vini americani erano penalizzati. In proposito ci sono copiosi articoli di lamentele sul New York Times di produttori americani. Il vino americano può essere un elemento di concorrenza, ma detiene una quota decisamente inferiore al nostro e al vino di altri paesi e quindi non possiamo aspettarci che eroda rapidamente fette di mercato agli altri attori. Ricordo che il 2019 ha registrato forti cambiamenti. Basti pensare che tradizionalmente il vino francese dominava le importazioni cinesi con quote superiori al 40 per cento. Nel 2019 la Francia ha perso molte quote in un contesto di riduzione delle importazioni cinesi ed è stata superata per la prima volta nella storia dall’Australia che beneficia di una generale contrazione del mercato e di accordi commerciali favorevoli. Scendendo al secondo posto troviamo quindi la Francia, a ruota il Cile. Quarta l’Italia con una quota del 6,5 per cento, ma il dato sui primi nove mesi del 2019 vede una crescita dell’export di quasi il 5 per cento. I cinesi stanno capendo che il vino non è più sinonimo di Francia, ma da qui a considerare una rapida erosione del mercato cinese da parte del vino americano direi di no. Nel 2020 lo scenario dovrebbe comporsi in una tregua elettorale, ma non è assolutamente detto che la disputa sia del tutto conclusa. Tanto è vero che si attende una Fase 2 in cui probabilmente gli americani metteranno nuovamente in discussione il modello economico cinese, che a detta loro è  eccessivamente dipendente dal sostegno economico statale e quindi potrebbe verificarsi una fase di pressione e una di negoziazione ulteriore, con possibile riapplicazione dei dazi. Nessuna certezza è in arrivo allo stato attuale delle cose. Siamo in  una fase di transizione anche sull’effettiva capacità cinese di portare a compimento gli impegni di acquisto di prodotti agricoli  che sono stati promessi. A tal proposito si sono elevati da parte di alcuni commentatori delle obiezioni perché i volumi di acquisto sono superiori alle condizioni precedenti. La tregua attuale non è ultimativa, ma è solo una fase di passaggio”. Un clima di incertezza in cui è difficile pensare a contromosse europee. “L’Ue deve avere una posizione più solida, tradizionalmente manca di una voce comune. Bisogna però registrare che la visita di Macron a Shanghai, lo scorso novembre, alla fiera China International Import Expo era in nome dell’Europa, tanto che è stato siglato, fra gli altri accordi commerciali, il riconoscimento della tutela di cento prodotti europei con indicazione di origine protetta di cui 25 sono italiani. Della delegazione faceva parte anche Phil Hogan, il commissario europeo al Commercio. Occorre insistere in quella direzione, le operazioni devono essere congiunte. Serve un rafforzamento della posizione europea attraverso una semplificazione del prodotto presentato, una migliore catena distributiva e una maggior promozione del vino legata alle esperienze della qualità della vita e al tema del turismo”. Quanto all’emergenza del coronavirus, che sta turbando non solo la sanità pubblica ma anche l’economia internazionale e la geopolitica con effetti negativi sui nostri rapporti con il colosso produttivo cinese, basti pensare che il movimento turistico cinese muove 130 miliardi di dollari all’anno e in media ogni viaggiatore della Repubblica popolare spende 1200 euro, dice: “Siamo in una fase di decoupling, ossia disaccoppiamento economico. La crisi dovrebbe mettere in evidenza quanto tutti in realtà dipendano dall’economia cinese. Pechino sulla gestione dell’emergenza sanitaria si giocherà un importante ritorno di immagine, positivo o negativo, e con risvolti sulla proiezione esterna della Cina. Il coronavirus cade nell’anno della cultura e del turismo Italia Cina”. Accordo di Fase 1 che arriva dopo una lunga trattativa, più volte rinviato e annunciato e che più che la pace commerciale segna una tregua commerciale. “Trump è nell’anno della campagna elettorale e quindi ha bisogno di presentare un successo perlomeno mediatico al suo elettorato e dal lato cinese c’è la necessità di alleviare la pressione americana sull’economia del paese, che per quanto cresca a livelli più alti delle economie più avanzate dovrebbe assestarsi quest’anno poco sopra il 6 per cento. Il tasso di crescita del Pil ha registrato negli anni passati un effettivo rallentamento, il Pil procapite invece è in ascesa, ma bisogna differenziare area per area perché la Cina è vasta: si possono incontrare realtà con un livello sociale ed economico comparabile a quello delle economie più avanzate e altre comparabili con le aree più povere del mondo. Se da noi il divario è tra Nord e Sud, in Cina si registra tra aree costiere e aree interne del paese. L’economia cinese sta vivendo una profonda evoluzione, una transizione da un modello economico passato a uno legato più alla qualità che alla quantità. Proprio per questo deve affrontare una serie di dinamiche legate anche alla transizione ambientale e quindi alla trasformazione di alcune industrie altamente inquinanti ma insostenibili in industrie con una certificazione ambientale più elevata. Si tratta di un processo che non può avvenire dall’oggi al domani e che inevitabilmente comporta alcuni costi, quindi bisogna alleviare i dazi. Da entrambe le parti si sono composti degli interessi specifici. Gli americani attenzionavano la produzione tecnologica cinese e quindi i prodotti legati al piano di riqualificazione industriale Made in China 2025: questa è una delle ragioni per cui la guerra commerciale in realtà è molto di più una guerra tecnologica. La risposta cinese era specifica sugli agricoltori americani, riguardava la soia, ma non solo. I primi dazi cinesi riguardavano prodotti agricoli americani e territori che erano tradizionalmente elettori di Trump, e quindi c’era una pressione da quel punto di vista. Si è arrivati all’accordo per due ragioni: primo, i dazi americani che sarebbero stati applicati a Natale, poi sospesi, erano rivolti ai beni tecnologici prodotti in Cina che però venivano consumati dagli americani e quindi avrebbero avuto un impatto su quei consumatori; secondo, l’esigenza cinese di investire in prodotti agricoli, soprattutto per quanto riguarda la filiera legata alla carne di maiale, perché il paese del Dragone sta vivendo una gravissima epidemia di febbre suina africana che ha ridotto la produzione in alcune province anche dell’80 per cento. Il maiale non è un prodotto qualunque nella tradizione culinaria cinese, ma rappresenta circa il 25 per cento del consumo di carne, quindi è di gran lunga la carne più consumata in Cina: una riduzione della sua offerta è qualcosa che colpirebbe il consumatore e sarebbe vista come una incapacità di governo delle autorità cinesi. La tregua non vuol dire che si sono risolte le differenze di tipo economico, perché queste sono strutturali e riguardano il primato economico e tecnologico sul medio lungo periodo e quindi condizioneranno le relazioni tra i due paesi in quel lasso di tempo”. In questo quadro già complicato il vino italiano non potrebbe che beneficiare di una maggior semplicità di tipo merceologico, ossia presentandosi sul mercato cinese con una gamma di prodotti inferiore rispetto alla tipica parcellizzazione italiana che caratterizza anche le cantine, molte delle quali anche qualora riuscissero a ottenere un buon riscontro sul mercato cinese prima o poi si confronterebbero con il problema di non saper soddisfare la domanda perché la richiesta è superiore. “Così perde credibilità non solo la singola cantina ma tutto il sistema, l’intera denominazione. Ci dovrebbe essere una capacità di consorzio e di lungo periodo e un prodotto unitario specifico per la Cina. Ci vuole un piano di produzione. L’altro aspetto complicato è quello della distribuzione. La storica assenza di canali distributivi italiani pesa, mentre per esempio la Francia si appoggia alla rete Carrefour. La Cina è un mercato di grandissime aspettative, attualmente il valore delle esportazioni di vino in quel mercato è una frazione delle nostre esportazioni. Noi esportiamo più di 13 miliardi di euro di beni di cui le bevande in generale rappresentano 150 milioni di euro in Cina e sul vino abbiamo valori sui 90 milioni. Il vino può essere il volano per lo stile di vita italiano e attirare attenzione su altri prodotti che siano non solo agroalimentari ma legati alla qualità della vita italiana”. La Cina enoica sta cambiando. A Pechino sorgerà un museo del vino sul modello della Citè du Vin di Bordeaux, che sarà inaugurato nel 2021. I consumatori cinesi stanno crescendo, cercano qualità in un contesto in cui l’economia cinese è in forte evoluzione e rivolge maggiore attenzione ai consumi interni. Con un interesse crescente per il dato culturale e per l’esperienza da vivere attraverso la bottiglia. “L’interesse che suscita la bottiglia è bidirezionale: o dopo aver degustato il vino sono interessati a conoscerne il territorio di provenienza e programmano un viaggio o se si trovano già in Italia provano il desiderio di portarsi a casa la bottiglia per prolungare l’esperienza piacevole vissuta nel nostro paese”.