Nella laguna di Venezia, sull’isola di Mazzorbo, incontriamo Gianluca Bisol, presidente della Bisol (4,5 milioni di bottiglie), storica famiglia produttrice del Valdobbiadene Prosecco Superiore e del Cartizze, che nella Venezia Nativa ha riportato alla luce un vitigno antico di cui si erano perse le tracce, la Dorona. Nel cuore delle Dolomiti, a Cortina, invece, il vigneto più alto d’Europa, il Vigna Major, a 1350 metri slm, dove si punta su Incrocio Manzoni e Solaris, uve particolarmente adatte alla spumantizzazione. Sui Colli Euganei, su suoli nati dalla disgregazione di rocce vulcaniche, un altro progetto distintivo e in crescita volto alla valorizzazione del Moscato Giallo e dei vini rossi uvaggio di Merlot, Cabernet Sauvignon e Carmenere, insieme alla produttrice Elisa Dilavanzo. Fil rouge? Unicità, qualità senza compromessi, vino che diventa il collante per esperienze immersive nella natura e nella cultura del territorio in nome di un diritto alla bellezza espressione pura dello spirito dei luoghi. Bellezza che stimola la creatività, e che presuppone una maturità civica, quindi da condividere, questo il senso. Quanto al Prosecco, “fa parte del lifestyle italiano, rappresenta un modo di vivere e come tale è percepito”.

Gianluca Bisol, si è da poco concluso a Verona Opera Wine, primo grande evento internazionale per l’Italia del vino dopo la pandemia. Lei è fiducioso nella ripartenza o la variante Delta che si sta diffondendo in Gran Bretagna la preoccupa?

Oggi come oggi l’euforia va stemperata perché già l’anno scorso in questo periodo avevamo la sensazione di tornare alla normalità e poi così non è stato. Ci stiamo forse abituando a convivere con una emergenza sanitaria che non ci lascerà liberi in breve tempo. Penso che siamo sulla strada buona per uscirne, ma dovremo prepararci a un autunno con qualche preoccupazione, anche se in meno rispetto allo scorso anno perché saremo tutti vaccinati. La variante mi preoccupa perché la Gran Bretagna fino a ieri era considerata la nazione che aveva reagito meglio ai vaccini. Questa nuova situazione non rimarrà contingentata nel paese dove si è originata ma arriverà anche qui da noi. Il virus è intelligente, è nato per sopravvivere, sa adeguarsi e trova delle “scappatoie” come lo mettiamo nell’angolo. Pragmatismo, piedi per terra, piccoli passi.

Bisol dal 1542. Immagino che i momenti difficili nella sua famiglia siano stati tanti…

Per me questa è la prima vera grande emergenza sanitaria. La pandemia ha influito in maniera pesante sulla nostra libertà, sui nostri movimenti, sulla nostra capacità di relazione. Abbiamo vissuto momenti di solitudine, di inquietudine per il futuro, quando l’essere umano è per sua natura socievole, portato a vivere in una comunità. Ci sono state crisi economiche mondiali importanti negli anni passati, penso alla recessione verificatasi tra il 2007 e il 2013, partita dagli Stati Uniti in conseguenza alla crisi del subprime e del mercato immobiliare. Un’altra pagina triste della storia mondiale fu la Guerra del Golfo, trent’anni fa, con l’attacco che diede il via alla prima guerra del villaggio globale sotto l’egida dell’Onu. Nel 2001, quando con il crollo delle Torri Gemelle si pensava che il mondo si fosse fermato, mi trovavo proprio a New York con mio figlio Matteo per delle degustazioni organizzate dal mio importatore: vedere la debolezza dell’uomo rispetto agli accadimenti fu devastante, un delirio totale, tanto che rimasi bloccato per dieci giorni perché non c’erano voli di rientro. Ma nella storia dei Bisol l’uomo che ha vissuto i momenti più impegnativi fu mio nonno Jeio Bisol, un ragazzo del 1899, che visse due guerre mondiali e che alla fine dei conflitti seppe guidare la famiglia con fermezza, facendone un punto di forza. Con i suoi insegnamenti ma soprattutto con il suo esempio  siamo cresciuti tutti in modo rigoroso. Nonno non si scoraggiò e rimise in piedi i vigneti che erano stati smantellati dalla guerra, ricostruendo la cantina distrutta. Aveva combattuto lungo il Piave, era capocannoniere. Lo ricordo alto, distinto, con un mantello grigio scuro, un sorriso contagioso, uno sguardo carismatico e una voce autorevole che ti sapeva mettere in riga quando non c’era da ridere.

A cosa pensa se le dico Prosecco?

Penso a Valdobbiadene, colline ripidissime che il 99,9% di chi beve Prosecco forse non conosce e quindi non può neanche immaginare quanto sia faticoso lavorare questi vigneti, che poi, però, ripagano con la qualità. Mi evoca un quadro di un paesaggio meraviglioso, fisico e culturale al tempo stesso, dove le vigne sono circondate da boschi, da luglio 2019 Patrimonio dell’Umanità Unesco. Siamo ai piedi di montagne nate geologicamente 35 milioni di anni fa, su terreni con caratteristiche orografiche e pedologiche particolari e con pendenze fino al 40%.

Come si diventa una famiglia rispettabile nel mondo del Prosecco, che è a maglie larghe e copre un territorio vasto? Il Prosecco si produce anche in Friuli Venezia Giulia…

Noi siamo legati alla parte storica, al Prosecco di alta qualità, di collina, quello di Valdobbiadene, il cosiddetto Prosecco Superiore, un aggettivo fondamentale che non dovrebbe mai abbandonare il nome Prosecco quando ci si riferisce alla zona storica. Il Prosecco è un vino con cui si possono fare grandi spumanti, non è semplicemente un prodotto da spritz. La semplicità del vitigno glera nelle colline di Valdobbiadene riesce a esprimersi con caratteristiche uniche. Non definerei il Prosecco un territorio o un vino a maglie larghe perché comunque le ha più strette di molti altri territori. La sua fortuna, che al tempo stesso diventa sfortuna, è stato il successo rapido, veloce, una scalata non sempre digeribile per chi la vede da fuori e magari ha problemi sul suo territorio. Si tratta di un prodotto straordinario che deve solo capire come raccontarsi al meglio nelle sue nelle sue varie tipologie. Questo è il punto.

Nella scala della sua costruzione identitaria dove si colloca oggi il Prosecco?

C’è ancora tanta strada da fare e un grande potenziale da raggiungere. È stimolante pensare a quante cose si possano ancora realizzare in questo mondo del Prosecco raccontandolo in maniera più oggettiva. Abbiamo un consorzio che per quanto concerne il Prosecco Doc lavora benissimo, con un direttore generale capace, Luca Giavi, e un presidente illuminato, Stefano Zanette, invece nella zona del Prosecco Superiore ci confrontiamo con un consorzio che è dilaniato al suo interno. Quando nella zona storica non c’è coesione e i consiglieri pensano più a farsi battaglia tra di loro che a una strategia comune per far capire al consumatore quanto possa essere superiore il Prosecco delle colline, è chiaro che non si va da nessuna parte. Il potenziale di questa vendemmia è di 150 milioni di bottiglie, di cui 100 milioni di Prosecco Superiore, quasi cinquanta di Prosecco Doc, cui si aggiunge un milione di bottiglie di Cartizze.

Bisol è l’unica azienda che produce cinque tipologie di Prosecco Superiore da cinque suoli diversi…

Fu una intuizione di mio nonno Jeio, già allora, settant’anni fa, quella di tenere separate le uve dei vari suoli. La mia famiglia ha ventun poderi in cinque comuni diversi, il più grande è di otto ettari e il piccolo di cinquemila metri quadrati, tutti alla stessa altitudine, ma distanti anche ventuno chilometri l’uno dall’altro, con cinque tipologie di suoli: calcareo, argilloso, di marna, sabbioso e morenico. Il vitigno glera è estremamente sensibile al cambio dei suoli, pertanto è fondamentale tenerli distinti: sul terreno calcareo si evidenzia una bella espressione del frutto, degli aromi varietali; su quello sabbioso l’esplosione di frutta è ancora più ampia e intensa fino ad arrivare a note tropicali; su quello argilloso predominano la verticalità del vino e i profumi floreali oltre che fruttati; su quello morenico esce la mineralità e la “mascolinità” del vitigno; sulla marna frutti e fiori insieme, con un certo spessore al palato.

Ma cos’ha di così speciale la collina del Cartizze?

È l’unica collina, oltre che la più ripida, in cui in vendemmia si può lasciare l’uva sulla pianta fino a quindici giorni in più senza perdere acidità. Il suolo sabbioso in superficie e roccioso in profondità consente una evoluzione più acida. Quella del Cartizze è una collina a 320 metri slm, a metà strada tra Venezia e Cortina, con una ventilazione eccellente: aria più calda di giorno dal mare a una cinquantina di chilometri e più fredda di notte dalle Dolomiti. In totale sono 108 ettari vitati. Noi produciamo circa trentamila bottiglie di Cartizze.

Quali sono i vostri mercati target e qual è la percentuale di export?

Inghilterra e Stati Uniti in primis rispetto ai settantadue paesi nei quali siamo presenti, con una percentuale di esportazione del 75%.

Il Covid quanto ha inciso sul fatturato?

È stato un anno particolarmente pesante per noi perché siamo un’azienda che distribuisce nell’horeca. Fortunatamente c’è una ripresa velocissima.

Ora che Biden ha tolto i dazi sui vini francesi, siete preoccupati?

Sentiremo un po’ di più la loro concorrenza, ma sostanzialmente è un mercato in cui l’Italia è leader e continuerà ad esserlo, grazie al fascino del made in Italy in generale che si traduce in leadership anche nel mondo della moda, della ristorazione.

Cosa ne pensa del Prosecco Rosé?

È la naturale evoluzione di un’ottima tipologia di spumante che ha al suo interno da sempre Pinot nero, che si può utilizzare al massimo nella percentuale del 15%. La novità è che il Pinot nero deve essere vinificato in rosso. È stimolante per noi produttori confrontarci con una cuvée in cui il Pinot nero ha una importanza maggiore rispetto a prima. Noi produciamo pochissime bottiglie di Prosecco Doc Rosé Jeio con l’intenzione di distinguerci per l’altissima qualità. Di conseguenza abbiamo un vigneto di Pinot nero in alta collina, grazie anche  a un incontro con Tom Stevenson, uno degli scrittori di vino più influenti, che nel 2008 mi consigliò di piantare questo vitigno.

La tenuta Venissa, la poesia della laguna di Venezia, un vitigno praticamente quasi estinto e da voi recuperato, la partnership con Francesca Pagnan. Quali sono gli obiettivi nel breve periodo? Forse la Borsa?

Assolutamente no al momento. L’obiettivo principale è caratterizzare ancora di più l’esperienza, sviluppare in loco nuovi vigneti, incrementare la percezione della bellezza, della cultura enogastronomica come valore etico e sociale, del genius loci con la sua unicità, della Venezia Nativa, della cultura che ritroviamo in vigna e nel bicchiere degustando un calice di Dorona, questo vitigno straordinario che ha saputo adattarsi alla laguna, al sale, all’acqua alta, resistendo coraggiosamente. Quando l’ho scoperto per caso nel giardino dell’antiquaria Nicoletta Emmer a Torcello, nel 2001, in visita con dei clienti di New York alla basilica dell’isola, mi sono sentito investito della missione di riportarlo in produzione. C’è anche il desiderio di continuare una tradizione, di averla riscoperta, di far vivere le isole della laguna attraverso un racconto non scontato che le caratterizzi in maniera forte. Si viene a Burano per l’arte dei pizzi e dei merletti ma anche per l’arte di fare vino, ancora più antica, di godersi un bicchiere unico all’interno di una vigna murata altrettanto unica al mondo, dominata da un campanile del Trecento, vivendo l’esperienza di un ristorante stellato con una cucina sostenibile d’avanguardia, che autoproduce le materie prime che consuma attraverso una serie di orti immersi in un contesto bucolico e che incentiva la pesca locale con il suo menù gourmet, riducendo gli sprechi. Anche la versione più informale della nostra osteria contemporanea così come l’esperienza dell’hotel diffuso permettono al winelover di entrare in simbiosi con l’isola, di riempirsi gli occhi della laguna e della sua bellezza. La Dorona per il nostro cru Venissa la coltiviamo in un piccolo vigneto di 0,8 ettari intorno alla tenuta, invece da altri tre ettari sull’isola di Santa Cristina, da un altro ettaro a Torcello e da uno a Mazzorbetto ricaviamo il bianco Venusa, sempre da Dorona, e due rossi a base di Merlot e Cabernet Sauvignon.

Qual è l’annata più cara di Venissa venduta?

Venissa parte da 140 € per l’annata corrente fino ad arrivare alla 2010, prima annata mai prodotta, a oltre 1300 €, all’asta addirittura a 1750 €. È molto ricercata dai collezionisti di vini dal timbro unico. Si tratta di un bianco con delle caratteristiche da rosso. L’unico modo per salvare questo vitigno era interpretarlo così, lasciandolo macerare sulle bucce a lungo, in modo da sviluppare gli anticorpi per l’ossidazione, i tannini. Bere un bicchiere di Dorona è una esperienza esaltante per un cultore del vino perché ha sapori e aromi particolarissimi, sospesi tra acqua e cielo.

Suo figlio Matteo Bisol d’ora in poi sarà una presenza sempre più concreta nella costruzione di una identità della Dorona…

Roberto Cipresso, che ha dato il calcio d’inizio in questa partita mettendosi in gioco, resta come consulente di valore insieme a mio fratello Desiderio Bisol, ma Matteo diventerà un interlocutore strategico più forte. Fin da piccolo gli ho trasmesso la passione per i viaggi, stimolandolo ad essere curioso. Crescendo mi ha seguito in Francia, a Bordeaux in particolare, in California. È molto attento all’aspetto della sostenibilità e quindi virerà sempre di più sulla natura, sul vino come espressione del terroir, del suolo, senza un eccessivo intervento dell’uomo. Matteo sposa una enologia che “guarda” più che essere interventista. Sarà un vino super naturale. Stefano Zaninotti, il nostro agronomo, misura quanti tipi di insetti, di erbe spontanee ci sono, qual è la vitalità del suolo. Nel primo metro di terra, sotto un ettaro di vigna, se estraessimo tutti gli elementi vivi  e riuscissimo a metterli in un’unica massa corporea sarebbe come vedere 35 pecore che interagiscono con le radici del nostro vigneto. Matteo è affascinato da tutto questo e vuole far sì che il mondo sotterraneo possa essere compartecipe del risultato del vino.

Novità in arrivo anche per quanto concerne l’azienda Maeli sui Colli Euganei…

Maeli è un altro magnifico progetto. In pieno Covid abbiamo acquistato dieci nuovi ettari alle terre bianche del Pirio, prevalentemente coltivati a Moscato Giallo. Ma ci amplieremo con una nuova tenuta con cantina interrata, una sala degustazione, una piscina geotermica, un ristorante, una decina di camere con vista mozzafiato sui Colli Euganei.

Meglio il Prosecco o il Trentodoc?

(Ride) Forse è meglio l’Oltrepò Pavese…

Con l’arrivo del Gruppo Lunelli (lo stesso di Ferrari Spumanti e Acqua Surgiva) il brand è cresciuto?

Abbiamo messo a sistema le energie di entrambi e abbiamo portato un valore ulteriore al brand. Lunelli è il partner ideale per la crescita. C’è un’amicizia di lunga data, di oltre trent’anni, che ha trovato il coronamento in questa operazione. Entrambe le nostre famiglie facevano parte dell’Istituto Italiano Metodo Classico. Non sempre è scontato portare avanti un’amicizia dei padri.