Per fare del buon vino? “Tutto sta nel saper curare la terra e l’ambiente che gli sta intorno”. Non ha dubbi l’enologo Alberto Mazzoni, direttore del maxi consorzio marchigiano di tutela vini (IMT), che raggruppa 16 dop regionali e 7500 ettari di vigneto, rappresentante dei consorzi italiani al Comitato vini al Mipaaf.
Marche, una regione vulcanica senza il vulcano, che sta spingendo l’acceleratore sul marketing e sulla promozione, con idee innovative. Come si è evinto anche dal successo del tasting tour digitale appena concluso, che per alcuni mesi ha coinvolto la stampa specializzata, momento di scoperta o riscoperta dei vini del territorio e di riflessione sullo status quo di alcune denominazioni.
Marche, terra dove la civiltà contadina ha radici antiche e solide, con una forte propensione per le produzioni bio.

Marche regione sempre più green…

Siamo partiti col basso impatto ambientale già negli anni ’80. Avevamo creato un’area di svariati comuni in provincia di Ancona che sottostavano a un regolamento per ridurre i prodotti sistemici. Non si diventa biologici per i contributi ricevuti, ma si nasce con questa forma mentis. Noi marchigiani siamo biologici dentro. Girolomoni ha fatto rinascere un antico monastero abbandonato ed è stato il pioniere dell’agricoltura biologica nelle Marche. Aveva capito che non contava una singola azienda ma tutto un territorio: non si può prendere un ettaro di vigna e fare il biologico se poi intorno si ricorre al convenzionale. La regione dal punto di vista geografico, enologico, delle temperature, dell’umidità, delle correnti che dal mare vanno verso la montagna e dell’ingegno dell’uomo è baciata dalla fortuna. Oggi abbiamo il 34% della superficie in regime biologico, siamo la settima regione italiana e vogliamo essere il primo distretto europeo del bio. Siamo tra le regioni più green in Europa in rapporto alla superficie vitata. Manca, però, una banca dati per il monitoraggio sul biologico in Italia e mi auguro che le Marche siano apripista in questa direzione. Grazie all’impegno dell’assessore Mirco Carloni, vice presidente della regione, abbiamo già iscritto 2000 ettari  a un mese dall’apertura del bando. La provincia di Ascoli Piceno è la più grande, quella che ha più superficie. Stiamo lavorando con tutte le organizzazioni professionali perché questo progetto diventi pilota in Italia e in Europa. Il vino biologico è sempre più richiesto nel Nord Europa e negli Stati Uniti. Purtroppo su 100 produttori solo 10 lo confezionano come biologico.

I vini marchigiani quanto esportano?

Oscilliamo intorno ai 160 milioni di euro e l’esportazione si aggira sui 40, un quarto del totale. Il vino più esportato è il Verdicchio dei Castelli di Jesi, seguito a ruota dal Rosso Piceno. Imt rappresenta l’85% dell’export del vino marchigiano, per un totale di  652 aziende e sedici denominazioni. I vini Doc coprono il 50% del territorio, gli Igt il 30 e i vini generici o varietali il 20.

Come sfrutterete i finanziamenti del Psr che arriveranno da qui ai prossimi 5 anni? Ci saranno contributi non ripetibili?

Stiamo rivalutando il discorso dei bandi, che saranno biennali, per poi partire con la nuova progettazione quinquennale 2023-2028. Continueremo a viaggiare su tre binari essenziali: vigneto, tecnologia in cantina e promozione. Non si può fare promozione senza pensare al rinnovo dei vigneti e senza avere una tecnologia evoluta in cantina. E poi promozione in Italia, Europa e nei paesi extra comunitari. Studio Marche, nato a marzo di quest’anno, resterà attivo perché non riusciremo sempre a raggiungere fisicamente tutti i paesi e per una questione di risparmio economico. Qualche settimana fa ci siamo collegati con 25 buyer a Mosca e a San Pietroburgo. Creeremo una promozione orizzontale partendo dal cibo, dal vino, dal territorio, dalla cultura. Il nostro ombrello sono le Marche, che è l’unico brand che ci può sostenere e difendere, irriproducibile altrove. Tutto si può delocalizzare tranne territorio, clima, microclima, tipicità dei prodotti. C’è la volontà di metterci tutti insieme, piccole, medie e grandi aziende per essere attori protagonisti nel promuovere l’eccellenza della nostra terra.

Con il Verdicchio si punterà a valorizzare sempre di più il territorio in etichetta?

I vitigni possono essere piantati in qualsiasi parte del mondo e quindi è giusto che in etichetta abbiano un ruolo meno preponderante. Ciò che conta oggi è la geolocalizzazione del territorio, in questo caso Matelica e Castelli di Jesi, dove puntiamo a una modifica unionale del disciplinare. Le modifiche richiederanno ancora 24 mesi per essere portate a termine. Il nome Verdicchio diventerà facoltativo e potrà essere inserito alla fine della tipologia. In futuro la Docg si chiamerà Castellli di Jesi, con quattro declinazioni: Superiore, Classico Superiore, Riserva, Classico Riserva. Per la Doc diventa obbligatorio l’imbottigliamento nella zona di produzione. Una regione come le Marche, con svariate denominazioni, ha fatto della frammentazione del mondo vinicolo un’opportunità all’interno del consorzio. Imt rappresenta il 100% delle aziende di Verdicchio. Sono duemila ettari a Verdicchio dei Castelli di Jesi, per un totale di 18 milioni di bottiglie, di cui circa la metà finisce all’estero. Negli ultimi 10 anni l’export di questo vino è cresciuto quasi del 50%. Avremo anche una modifica sul Matelica, che diventerà  Matelica Doc e Matelica Docg. A Matelica, dove il mercato domestico rappresenta più del 50%, si producono un decimo delle bottiglie dei Castelli di Jesi: sono duecento ettari  a fronte di duemila. 

Riforma del disciplinare anche per il Rosso Conero. I vini base marcano la differenza con la riserva…

Andremo verso nuove forme di vinificazione e punteremo su rosati e spumanti integrandoli nella Docg. Nel 1967 il Rosso Conero è stata la prima denominazione di origine marchigiana che ha valorizzato il vitigno Montepulciano all’85%, in un momento storico in cui in Italia esisteva solo il Sangiovese. Temerari viticoltori, intelligenti, hanno fatto sì che sul mare, alle pendici del Monte Conero, su una terra bianca, calcarea, si piantasse il Montepulciano, un vitigno che si esprime diversamente dal Montepulciano d’Abruzzo perché il sistema ambientale, climatico fa la differenza. Il Montepulciano in Abruzzo produce circa 140 quintali di uva per ettaro, sul Conero 80 ed è coltivato su una superficie di 250 ettari, per un milione e mezzo di bottiglie Doc e 230mila Docg. Nelle Marche ha una sua identità. Tutto questo però non è stato accompagnato nel tempo da un’evoluzione legata al cambiamento della tradizione. Non abbiamo seguito i mutamenti della società e del gusto dei consumatori. Non si può continuare oggi a fare vini strutturati, tannici, barricati, ma dobbiamo puntare su prodotti più piacevoli, freschi e pronti che ben si adattano anche al pesce dell’Adriatico per la loro scorrevolezza. La tradizione del rosato e del metodo classico proveniente da uve Montepulciano esiste da anni. Sono vini appetibili, consumabili per freschezza, sapidità. Iniziamo con 200-300mila bottiglie di rosato e con almeno 50mila bottiglie di metodo classico. Abbiamo scorte di Rosso Conero che pesano sulle spalle dei produttori. 

Il Rosso Conero è la Doc che ha attraversato il momento più difficile nel vigneto Marche?

Sì, la sta ancora attraversando. La scarsa vendemmia 2020 è forse una benedizione perché ci sono giacenze da smaltire. Non possiamo stoccare i vini di pronta beva.

Oggi producete 150mila bottiglie di Ribona Doc di cui 15mila di spumante. Dal 2022 si potrà imbottigliare la Ribona Riserva, un vino che vuole scrivere un nuovo capitolo della storia di questo vitigno…

Ci stiamo provando. Al di là dell’invecchiamento bisogna identificare un territorio. La Ribona è un vitigno a bacca bianca. Dobbiamo riuscire a dargli un’identità non di vino generico, ma di vino che riesce a lasciare un ricordo in chi lo beve.  Un vino che nel tempo invecchia bene, con profumi intensi e che si abbina anche con cibi forti del maceratese, dove la gastronomia ha radici storiche. Si tratta di standardizzare non la qualità ma l’uvaggio. Se facessimo il Ribona 100% da vitigno autoctono, come accadrebbe con la tipologia riserva, le differenze che si percepiscono nel vino generico non si percepirebbero più. Se invece nel 15% tollerato dal disciplinare continuiamo a mettere Sauvignon, Chardonnay o Incrocio Bruni quel gusto cambia, il Maceratino scompare. La personalità di un vino non si deve apprezzare sulla grande riserva ma sul vino base, quello di apertura, che rappresenta l’identità di un territorio. Se, però, questa identità di territorio ognuno la tira dalla sua parte significa che non crediamo nel vitigno e allora è inutile fare quel vino che alla fine dei conti non è Chardonnay, non è Sauvignon e non è neanche Maceratino, ma è un vino bianco.

Vernaccia nera, figlia di un dio minore?

È l’eccellenza delle eccellenze. Un vitigno che cresce su 60 ettari nel maceratese, in un fazzoletto di terra tra l’Umbria e le Marche, a 600 metri di altitudine, dove vent’anni fa nevicava, a differenza di oggi che c’è siccità. Da noi, a questa altitudine, non c’è altra viticoltura che resiste. Nasce nella tipologia spumante per mano di viticoltori caparbi, perché l’uva non maturava mai, si raccoglieva tardi, faceva freddo e non fermentava. Infatti è l’unico vino al mondo che prevede tre fermentazioni e rifermentazioni successive: il 60% delle uve è vinificato al momento della vendemmia, il restante 40% è messo ad appassire sui graticci. È lo spumante che si apriva a Pasqua, con la pizza al formaggio e con i salumi. Col tempo la tecnologia è migliorata e abbiamo capito che invece di fare solo lo spumante si poteva ricavarne anche un vino fermo. Un vino che doveva avere una capacità di invecchiamento, partendo da un’appropriata raccolta delle uve, dallo svolgimento della malolattica, con maturazione in legno di media tostatura e almeno 12 mesi in bottiglia per farlo uscire pepato. Oggi sta diminuendo il numero di Vernaccia spumante e sta aumentando il Serrapetrona: il rapporto è rispettivamente di 250mila bottiglie contro 100mila. Tra un paio d’anni arriveremo a un rapporto quasi paritario fra fermo e spumante.

Bianchello del Metauro, perla nascosta delle Marche, che nel 2019 ha festeggiato i primi 50 anni della denominazione…

Siamo in quel di Pesaro Urbino, lungo il corso del Metauro. Duecento ettari in tredici comuni, 1,2 milioni di bottiglie, tre tipologie: superiore, spumante, passito. Un vino di pronta beva, giovane, armonico, acidulo, fresco, che si produce nel raggio di 25 chilometri. Oggi abbiamo creato una tipologia di prodotto più raffinata, come il Rocho, da vigne vecchie, sui 200 metri, una selezione particolare. L’età delle vigne è un punto fermo, ma vanno sapute gestire nel tempo affinché facciano la differenza nel bicchiere. Per farle un paragone, una persona si può mantenere giovane anche a sessant’anni, dipende da come cura la sua età. Le vigne vecchie hanno radici lunghe fino a 30 metri, non soffrono né il caldo né il freddo, producono in funzione dell’apparato radicale che hanno. Oggi troviamo vigne nuove con impianti realizzati a volte con poco senso. Se vogliamo che una vigna duri nel tempo, nei primi dieci anni deve produrre poco, deve fare le radici.  Non si può ricorrere all’inerbimento inizialmente. La natura è molto più  intelligente dell’uomo. Roberto Lucarelli è un cultore della terra, un uomo di braccia intelligentissimo che ha capito nel tempo come si poteva evolvere il Bianchello ed è riuscito a fare un salto di qualità. Oggi tre aziende producono l’80% di questo vino: Lucarelli, Guerrieri e Fiorini.  Prima di essere buoni produttori bisogna essere ottimi viticoltori. Senza vigna non c’è vino di qualità.

State puntando a una modifica del disciplinare del Bianchello del Metauro o sono voci di corridoio?

Sì, stiamo ragionando sul Bianchello per cambiarne il disciplinare. Si sta riflettendo se dare spazio ad altri vitigni nella misura del 15% o no, perché a volte si mettono senza scriverlo. E questo è lo stesso problema dell’identità dei colli maceratesi. Quando una denominazione in 50 anni cambia una  volta il disciplinare e lascia la base ampelografica sempre uguale non va bene, andrebbe armonizzata: o 15% di  vitigni a bacca bianca riconosciuti nella regione Marche o 100% Bianchello. Il 5% di Malvasia lunga, che non è neanche quella aromatica, non serve a niente. Dobbiamo puntare al Superiore 100% Bianchello. Ho una maggioranza abbastanza buona per portare a casa questa partita.

La Regione va incontro agli agricoltori con contributi per non estirpare le vigne vecchie, patrimonio fondamentale per la qualità?

Siamo la prima regione italiana ad aver dato contributi ad ampio raggio. Se c’è un collegamento tra agricoltura, mondo viticolo e politica è nei consorzi. Io sono un grande rompiscatole sui finanziamenti. In tempo di covid abbiamo portato a casa 5,2 milioni di euro. Il settore agricoltura piange sempre, altre regioni mi hanno chiamato per sapere come abbiamo fatto. Chi è socio del consorzio ha venti punti in più in tutti i bandi. La politica regionale di oggi è in linea con il sistema. C’è anche una nuova legge sull’enoturismo, cui abbiamo lavorato con fermezza e di cui sono particolarmente orgoglioso.

Quali sono i capisaldi?

Per fare enoturismo si deve avere una cantina, fare accoglienza, conoscere almeno una lingua, essere un produttore e abbinare il vino a dei prodotti igp e dop locali. La nostra grande forza sarà mettere insieme tutte le aziende del territorio, unire le forze perché l’enoturismo è il miglior sistema di rinascita delle Marche. In un’ora scarsa andiamo al mare ma anche a sciare, abbiamo una ricca biodiversità, specificità enogastronomiche, un pozzo di intelligenza umana. Metteremo tutto in rete e creeremo un’app per collegare le attività agricole regionali. Non diciamo dove l’enoturista deve andare, ma gli forniamo un percorso indicandogli cosa trova lungo la strada. Siamo capofila di questo progetto.

A che punto siete nella costruzione identitaria degli spumanti?

Abbiamo tantissimo da fare. Ci siamo schierati contro i varietali. Non possiamo permettere che i nostri vitigni più importanti possano essere spumantizzati ovunque e chiamati spumante pecorino, spumante verdicchio  e via dicendo. La pratica della spumantizzazione deve avvenire all’interno delle Igt e delle Doc, non possono coesistere all’interno della nostra regione spumanti varietali. Le bottiglie totali sono 14 milioni. Iniziammo a spumantizzare nell’area di Cupramontana negli anni ‘40-50. Oggi sempre più aziende credono nel dosaggio zero, che è il futuro. Abbiamo ancora ampi margini di crescita. Sono molto fiducioso.