Quarto imprenditore del nostro primo ciclo ristretto di “Grandi Interviste” è Giovanni Manetti, presidente del Consorzio del Chianti Classico e titolare dell’azienda vitivinicola Fontodi, a Panzano, nella cosiddetta Conca d’Oro, un territorio particolarmente vocato per la produzione di vini longevi, austeri e di complessità minerale. Fontodi è un vero e proprio microcosmo dove la coltivazione della vite, dell’ulivo e l’allevamento di bovini di razza Chianina realizzano un ciclo integrato che fa della sostenibilità un mantra, una filosofia di vita prima che produttiva. Qui, in questa terra storicamente divisa tra guelfi e ghibellini, nasce un vino iconico, celebre in tutto il mondo, il Flaccianello della Pieve.
Anche con lui affrontiamo il tema dei contraccolpi del Covid-19 sulla denominazione e parliamo di futuro, i suoi tre figli.

Giovanni Manetti, sembra un secolo fa il periodo immediatamente precedente il Covid-19, quando la Chianti Classico Collection, il vostro evento di punta per la presentazione delle nuove annate, aveva registrato l’edizione forse migliore della sua storia…

L’andamento della qualità della denominazione è in crescita. I vini hanno sempre più carattere di territorio, una personalità spiccata e sanno conquistare diverse fasce di età per la loro eleganza e bevibilità. Non sono più i vini pesanti e troppo concentrati tipici del gusto degli anni ’90. Oggi il Chianti Classico vive un ritorno di attenzione notevole, segno che gli investimenti fatti dalle aziende, sia in cantina sia in campagna, stanno dando i frutti sperati. Il Consorzio con le sue attività di comunicazione e promozione è stato il volano per questa crescita, per un nuovo appeal. E questo è riconosciuto praticamente da tutti i nostri viticoltori, tanto che la rappresentatività del Consorzio è pari al 97%: quel 3% che manca riguarda di solito micro aziende che hanno qualche filare di vite in giardino. È molto sentita l’esigenza di appartenere a questa associazione, di lavorare in squadra per il bene di tutti.

Qual è la tenuta della denominazione sui mercati, italiano ed estero, in questo ultimo periodo?

In questi primi 4-5 mesi abbiamo riscontrato un calo medio del 20% come denominazione, tradotto significa che la tenuta è abbastanza buona. Ci sono aziende che soffrono più di altre, soprattutto quelle più piccole che ancora non hanno una presenza consolidata sui mercati stranieri, che vendono più localmente, che sono più legate al flusso turistico presente sul territorio. Le aziende strutturate, che lavorano su tanti mercati diversi e in diversi paesi riescono a suddividere il rischio e sfruttano lo sfasamento temporale che c’è stato nella pandemia: penso ai mercati asiatici, che già stanno ripartendo, oppure a quelli nordamericani, che sono entrati in crisi dopo e ancora a marzo ritiravano prodotto. Ora dobbiamo lavorare come consorzio predisponendo una serie di misure per contenere il disagio delle aziende più piccole, per non farle rimanere indietro.

Del tipo?

Ci sono già misure a carattere nazionale che prevedono dei contributi per la riduzione volontaria delle rese, delle quantità prodotte, con uno stanziamento di 100 milioni sul Decreto Rilancio, che dovrebbero arrivare al settore vitivinicolo per riequilibrare un po’ a livello nazionale la domanda con l’offerta. Noi come consorzio stiamo pensando di costituire un fondo di solidarietà autotassandoci tutti per cercare di dare un aiuto alla aziende più in sofferenza.

Date il buon esempio, un segnale forte…

Lo stiamo mettendo in cantiere in questi giorni per dare sempre più stabilità alla denominazione. Si va avanti tutti insieme.

E come imprenditore a capo di un’azienda vitivinicola vocata all’export, quali sono i contraccolpi?

Ho quasi imbarazzo a dirlo, ma siamo più o meno in linea con l’anno scorso. Fontodi ha una produzione limitata, lavora solo uve proprie e la domanda che avevamo in epoca pre Covid-19 era talmente alta che già non riuscivamo a soddisfarla. Stiamo sfruttando ora questo surplus di domanda che era inespressa e quindi abbiamo mantenuto un livello di vendite simile a quello del 2019. Mi sento molto fortunato in questo senso.

Ritiene adeguate le misure messe in campo dal Governo?

Non è facile gestire la macchina pubblica in questo periodo, non si fa mai abbastanza. Le misure attuali sono un tentativo di arginare la crisi, però probabilmente non sono ancora sufficienti. Dipenderà molto anche dalla durata di questa situazione e dalla Fase 3, con la riapertura delle frontiere e dei ristoranti in tutto il mondo. Il consiglio che do alle istituzioni è di mantenere alta la guardia. Sicuramente ci sarà bisogno di ulteriori iniezioni non solo di liquidità, ma anche di contributi economici. La crisi è nata come finanziaria, addirittura il primo mese sembrava fosse sufficiente iniettare liquidità, prestiti, ma adesso è diventata economica e c’è bisogno di compensare la mancanza di ricavi con contributi a fondo perduto, che sono fondamentali.

C’è il tetto del fatturato non superiore a 5 milioni di euro nel 2019 per l’erogazione dei contributi a fondo perduto…

Sì, ma il contributo della riduzione volontaria delle rese di cui parlavo prima è già un tentativo per erogare dei soldi a fondo perduto in cambio di una minor produzione. Il viticoltore decide di produrre un po’ meno, si parla del 15%, a fronte di un contributo economico. Questi soldi probabilmente non basteranno per tutte le richieste e ci sarà bisogno di aggiungere risorse. Mi auguro che anche le Regioni possano contribuire alla dotazione nazionale per raggiungere un valore medio a ettaro che possa compensare il sacrificio individuale in termini di quantità.

La Regione Toscana come sta lavorando in questa direzione?

Siamo in contatto continuo con l’assessore regionale all’Agricoltura e c’è tutto l’impegno possibile. Anche loro devono fare i conti con le risorse attuali. C’è, però, la possibilità di venire incontro agli agricoltori anche con stanziamenti regionali.

Quali sono i mercati tradizionali del Chianti Classico?

Il nostro export è del 78%. Storico mercato è il Nord America, area di riferimento: vendiamo il 34% negli Stati Uniti e il 10% in Canada. Subito dopo vengono i mercati europei: Regno Unito, che almeno geograficamente appartiene al continente europeo, che assorbe il 7%, a ruota la Germania con il 6%, i Paesi Scandinavi con il 4% e via via tutti gli altri. Vendiamo in totale in 130 paesi diversi. Fra il 2019 e il 2018 il fatturato è cresciuto e abbiamo registrato un aumento considerevole del valore della denominazione: a parità di  bottiglie vendute, sui 35 milioni, c’è stata più richiesta delle tipologie Premium, quindi Riserva e Gran Selezione. C’è anche una crescita del valore a ettaro, che si aggira sui 200mila euro, con punte verso l’alto a 300-400mila e verso il basso a 150mila: dipende dalla zona, dallo stato, dall’età e dal modo in cui viene condotto il vigneto, dal rapporto fra domanda e offerta.

Crede che la crisi innescata dalla pandemia spingerà i prezzi verso il basso?

Mi auguro ovviamente di no, ma il rischio c’è. Abbiamo fatto tanti investimenti in questi ultimi anni per il posizionamento delle bottiglie in fascia alta e un eventuale ribasso sarebbe pesante da sopportare. L’iniziativa di autotassarci di cui parlavo prima va un po’ in questa direzione, così  come la misura nazionale sulla riduzione volontaria delle rese. Diminuendo in maniera significativa la domanda di vino per alcuni mesi, il rischio è che i prezzi possano iniziare a scendere. Bisogna fare di tutto per riequilibrare il mercato, per mantenere in generale la stabilità delle denominazioni. E per riuscirci serve produrre un po’ meno nella prossima vendemmia. Le misure tampone possibili erano quelle relative alla distillazione di crisi o, appunto, alla riduzione volontaria delle rese. Quest’ultima soluzione ci sembra la migliore, anche perché l’altra prevede una distruzione di valore e psicologicamente è inaccettabile da parte dei viticoltori.

Quanto è giusto pagare una bottiglia di Chianti Classico?

Il range è abbastanza ampio, però secondo me con 15 euro si può bere una grandissima bottiglia di Chianti Classico d’annata.

Il lockdown ha mostrato come la Gdo e le vendite online siano un ottimo canale di vendita, in realtà il solo che ha tenuto. State ripensando la vostra strategia distributiva?

Noi siamo presenti soprattutto nell’Horeca e solo parzialmente nella grande distribuzione. Comunque no, siamo fiduciosi nella riapertura della ristorazione. Siamo appena usciti con una campagna stampa con un gallo che veste tricolore per dare un supporto di vicinanza a tutti i nostri partner ristoratori, per dirgli che siamo pronti a collaborare. Personalmente, dalla settimana scorsa mi sono preso l’impegno di uscire a cena in un ristorante diverso a sera per salutare i miei amici. Che sono molto contenti di vedermi.

Anche io, così come la maggior parte dei miei lettori, sarei contenta di vederla perché lei produce uno dei vini rossi simbolo dell’enologia italiana, il Flaccianello della Pieve, un puro Sangiovese bilanciato alla perfezione…

Mamma mia, grazie mille. Il Flaccianello nasce nel 1981. L’enologo è Franco Bernabei, amico e mentore prima che consulente. Ho imparato tantissimo da lui. Bisogna riavvolgere il nastro agli anni ’70, quando io, mio fratello Marco e Franco eravamo giovanissimi. In quel periodo ci fu una grande espansione della produzione di vino Chianti Classico e furono impiantati migliaia di ettari, tutti  in pochissimi anni, grazie anche all’arrivo di fondi comunitari. Questo determinò dopo qualche anno un grave squilibrio tra domanda e offerta e portò a una crisi di mercato e di identità. L’atteggiamento in quegli anni era di produrre in quantità e l’obiettivo era ridurre i costi, con vigneti non sempre costruiti in maniera appropriata e con l’ausilio di grandi trattori, di grandi macchine. Il risultato era un vino non apprezzato come lo è oggi e che difficilmente poteva competere con i grandi vini nel mondo. C’era bisogno di rompere gli schemi e inventarsi qualcosa di nuovo. Questo è il mood in cui sono nati i Supertuscan, un fenomeno chiantigiano. Il Tignanello, Le Pergole Torte, il Flaccianello sono tutti vini nati nel Chianti Classico, l’unica eccezione era il Sassicaia, che nasceva a Bolgheri, però aveva un po’ di “chiantigianità” perché c’era dietro Giacomo Tachis, l’enologo di casa Antinori, inoltre il vino veniva imbottigliato e commercializzato dai marchesi Antinori. La nascita dei Supertuscan era un atto rivoluzionario, una reazione, un tentativo di dimostrare al mondo quanto straordinaria fosse questa terra. Alcuni di noi scelsero di lavorare esclusivamente con il Sangiovese, altri unendo Sangiovese e Cabernet, come nel caso del Tignanello, altri ancora di andare su vini solo da uve internazionali. C’era molta libertà. Si è trattato di un momento estremamente positivo anche per il Chianti Classico, perché abbiamo dimostrato le potenzialità del territorio, dell’uva sangiovese coltivata qui, mettendo sotto i riflettori un po’ tutta la Toscana. Noi che abbiamo fatto quel tipo di rivoluzione oggi dobbiamo ridurre il più possibile un paradosso, chiamato paradosso toscano, ossia che spesso i grandi vini sono etichettati come Vini da Tavola e adesso Igt. Il desiderio mio e di altri è di far ritornare a casa, nella denominazione Chianti Classico, anche i grandi vini del territorio che attualmente non vi rientrano. La nascita della tipologia Gran Selezione aveva anche come obiettivo quello di portare un po’ di ordine all’interno della produzione chiantigiana.

Lei qualche mese fa era saltato sulla sedia perché i soci del Chianti Docg avevano deciso di inserire la nuova tipologia premium “Gran selezione” da voi ideata…

Sì, è vero. La tipologia Gran Selezione l’ho sposata dal suo nascere. All’inizio eravamo solo 25 aziende che la producevamo, ma a distanza di  5-6 anni ci sono ben 140 aziende della zona storica che ci credono. C’è stato un apprezzamento via via crescente e oggi è considerata una tipologia di successo su tanti mercati, americano e inglese in primis. Ci punteremo molto anche in futuro. Il Chianti ha tentato di copiarci e questo mi ha fatto arrabbiare. Il loro comportamento è inconcepibile. La Gran Selezione è una tipologia di vertice creata da noi, con cui allunghiamo in maniera netta le distanze nei loro confronti. Uno degli intenti era ridurre un po’ la confusione nei consumatori tra Chianti e Chianti Classico. Ci siamo opposti in maniera molto ferma e adesso il loro progetto è fermo. Speriamo in un esito positivo della nostra contestazione.

Le aziende nella zona storica hanno già riaperto per degustazioni in loco?

Sì, ma le presenze sono molto limitate. Comunque ci siamo già riorganizzati. Questo è un territorio a forte vocazione enoturistica, una grande risorsa che genera un indotto importante e permette di far conoscere meglio le aziende e fidelizzare il consumatore,  oltre che essere una integrazione considerevole del reddito per tantissime realtà, soprattutto le più piccole. Stiamo aspettando a braccia aperte tutti coloro che vorranno venire a passare le vacanze da noi.

Quali sono i valori che rendono il Chianti Classico distinguibile nel mondo, unico?

È una combinazione di tanti valori positivi. Innanzitutto è un territorio armonioso, collinare, con altitudini mediamente elevate e una presenza di suoli varia, come il macigno, l’alberese e il galestro, molto sassosi, ricchi di scheletro, di pietre che conferiscono grande mineralità, grande freschezza e grande eleganza ai vini. Il microclima è perfettamente adatto alla vite: mai troppo caldo, assolutamente asciutto, in grado di produrre uve sane, ricche di concentrazione ed estremamente profumate grazie all’escursione termica fra giorno e notte. Qui si fa viticoltura da sempre, c’è grande attenzione in vigna e in cantina, è nel Dna delle persone fare il vino, saper coltivare la vite. C’è un senso di appartenenza territoriale molto radicato. Il sangiovese, una delle uve rosse autoctone più famose al mondo, ha avuto un grande rilancio ultimamente. Rispetto è la nostra parola chiave: rispetto per il paesaggio, per la natura, per le persone. L’agricoltura biologica è arrivata al 40% della superficie nel Chianti Classico, una delle denominazioni dove questa percentuale è più alta. Il viticoltore ritiene che rispettare la natura porti a lui grandi vantaggi nel miglioramento qualitativo del prodotto. Se l’obiettivo è far uscire sempre di più nel vino i caratteri territoriali, quindi trasferire i profumi e i sapori di un territorio nella bottiglia, prima di tutto bisogna avere rispetto della natura e dell’ambiente. C’ è una grande consapevolezza in tutti i nostri viticoltori, anche in coloro che non si sono ancora convertiti al biologico c’è una forte sensibilità e tutti sono impegnati a ridurre il più possibile i prodotti chimici.

La Conca d’Oro di Panzano cos’ha di così particolare? Se fossimo in Francia sarebbe un Grand Cru.

Si trova proprio al centro del territorio del Chianti Classico. È un anfiteatro naturale, una vallata concava di grande luminosità che si apre a sud del paese di Panzano, da sempre considerato luogo d’elezione per la produzione del vino. Una fortunata combinazione di suolo, altitudine ed esposizione. Luoghi come questo, però, ce ne sono tanti altri: tutto il territorio chiantigiano offre la possibilità di realizzare grandissimi vini.

Quanti sono gli ettari vitati nel Chianti Classico? Ci sono margini per nuovi acquisti?

Il nostro non è un territorio con una monocoltura. La superficie vitata è il 15%, mentre il restante 65% è boschivo. Questo ci permette di godere di un paesaggio più bello e più vario, ma al tempo stesso ci offre un vantaggio straordinario in termini di biodiversità, un valore aggiunto insostituibile. Non è previsto un allargamento della superficie vitata per mantenere questo equilibrio naturale, così come quello tra domanda e offerta.

È vero che il principe del Galles ama i suoi vini?

Non saprei, però li ha apprezzati molto quando ho avuto l’onore di incontrarlo durante una bellissima degustazione nella rinascimentale Villa San Michele, a Fiesole, sulle colline di Firenze. Eravamo una decina di produttori toscani, tra cui Antinori e Biondi Santi, che lui voleva conoscere. Ama i vini toscani, questo sì. E ha una sensibilità ambientale molto spiccata. Lui è uno dei grandi fautori dell’agricoltura biologica, che pratica nella sua fattoria in Cornovaglia, nel sud-ovest dell’Inghilterra. Ha scritto un bellissimo libro che ho letto e questa cosa gli ha fatto molto piacere.

Che vendemmia si preannuncia?

Se va avanti così, ottima. E non solo per le giornate soleggiate che si sono susseguite. Anche per altri due motivi. Il primo è che noi viticoltori quest’anno siamo stati più tempo a casa, e quindi siamo stati più presenti in vigna, perché non ci sono stati né i viaggi promozionali all’estero né le due fiere più importanti del settore, Prowein e Vinitaly. Il secondo è che tutti i viticoltori che ho sentito mi hanno detto che si stanno impegnando al massimo affinché la 2020 sia la migliore vendemmia della loro vita. E questo è un buon segnale per ripartire, per reagire a una situazione difficile. L’impegno e la serietà pagano sempre.

Il futuro di Fontodi?

Fra tradizione e innovazione. Ho tre figli e due hanno cominciato a occuparsi in maniera stabile dell’azienda, dimostrando passione e attaccamento, senza pressioni da parte mia. Spero che portino avanti quello che ho costruito in tanti anni mettendoci, però, anche del loro. Sono liberi di creare prodotti nuovi, di discuterne insieme a me. Sono affascinati dalla riscoperta dei vitigni autoctoni, come il trebbiano, un’uva che noi più vecchi abbiamo combattuto negli anni ‘70 perché faceva parte del blend del Chianti Classico. Stiamo facendo esperimenti in questa direzione e mi sto accorgendo che è un vitigno particolarmente capace di esprimere il territorio in bianco. Sono presente, ma al tempo stesso do fiducia.