Fra gli imprenditori che hanno reso grande l’Italia nel mondo uno è senz’altro Riccardo Illy. Il nome Illy a livello globale si traduce in una sola miscela di caffè arabica 100% e in un inconfondibile barattolo cilindrico oggetto di design.
Nonno Francesco, di origine ungherese, arriva a Trieste dopo la Prima guerra mondiale, con un trascorso da soldato nell’esercito austro-ungarico. È lui l’inventore del caffè espresso e della pressurizzazione. Un visionario. Nel 1933 fonda la Illycaffè, oggi s.p.a. che esporta in oltre 140 paesi del mondo.
Riccardo Illy, triestino, entra in azienda nel 1977, crea il settore marketing, potenzia le vendite, aumenta il prezzo e con esso la percezione già alta della qualità del suo prodotto. Dopo quarant’anni nel board della Illycaffè, oggi è presidente del Polo del Gusto, la newco fondata a giugno del 2019 in cui la holding di famiglia Gruppo Illy (creata nel 2004) ha conferito le società Mastrojanni (boutique winery a Montalcino), Dammann Freres  (miscele esclusive di tè francese), Domori (cioccolato super premium), Agrimontana (confettura, frutta candita) e Fgel (Bonetti). Con una quota di partecipazione del 100%  in Mastrojanni e Domori, azienda piemontese che lo scorso anno ha acquisito il 100% della Prestat Ltd, società inglese produttrice di cioccolato premium e fornitore della Casa Reale. 

Lei ha recentemente dichiarato che per rialzare la testa servirà un nuovo miracolo italiano, come nel dopoguerra. Cosa serve oggi in concreto all’economia per ripartire? Lei è stato in politica per quindici anni. Cosa farebbe come prima cosa se fosse al governo del Paese?

Per me il governo finora ha fatto abbastanza bene, sia quello centrale sia quello regionale. Ovviamente con qualche piccolo errore qua e là, ma il primo problema era arginare la pandemia e il secondo salvare le famiglie e le imprese. Si comincia a sentire qualche effetto negativo del ritardo dovuto a un ordinamento giuridico complesso, pletorico, contraddittorio che rende difficile trasformare le decisioni del governo in azioni vere e proprie. Io come prima cosa in assoluto mi impegnerei per semplificare, che evidentemente non servirebbe per risolvere i problemi che abbiamo oggi, però quantomeno ci metterebbe nella situazione di ripartire finita la crisi e di affrontare meglio la prossima che se non sarà sanitaria sarà economica e se non sarà economica sarà finanziaria. La vita è fatta di cicli: finito un ciclo positivo ne inizia un altro negativo. Semplificare è qualcosa che si può fare senza spendere altri soldi. La semplificazione va attuata con legge delega, eviterei che fosse il parlamento a occuparsene altrimenti fra dieci anni saremmo ancora qui a discuterne.

Le società del Polo del Gusto  di cui lei è presidente sono in salute. Il fatturato aggregato nel 2019 era di 89,5 milioni di euro con un tasso di crescita al 17,6%, più del triplo rispetto al 2018. Qual è l’impatto della crisi economica?

La nostra è stata una crescita robusta, in accelerazione rispetto agli anni precedenti. Nello specifico per Dammann Freres i ricavi netti nel 2019 sono stati di 37 milioni di euro (+6%), per Agrimontana di 22,6 milioni (+10,4%), per Domori di 19,7 milioni (+6,7%) e per Mastrojanni di 2,2 milioni (+1,7%). La crisi ci ha falcidiato i fatturati per due mesi e mezzo, con una bella frenata, ma ora ci stiamo preparando a riaccelerare. La produzione, con qualche eccezione di uno stop per un paio di settimane, ha continuato per tutte le società in modo da servire quei clienti che chiedevano il prodotto: sia negozi, bar, ristoranti, ovviamente quei pochi che potevano lavorare, sia soprattutto i consumatori attraverso l’e-commerce. Ora ci prepariamo alla ripresa consapevoli che il 2020 non potrà chiudersi meglio del 2019 e che pertanto vedremo un calo nel fatturato, una frenata che non riguarderà solo le società del Polo del Gusto, ma quasi tutto il mondo. Diciamo che nei confronti degli altri non staremo peggio, ma per la vera ripresa si dovrà attendere il 2021, salvo sorprese. Siamo molto presenti con tutte le nostre società nel canale distributivo Horeca, che ha finalmente riaperto anche se sta viaggiando a ritmi ridotti. Molti ristoranti, nonostante i permessi, non sono ripartiti. La ristorazione è il settore più colpito insieme al turismo: gli alberghi non avevano obblighi di chiusura, però il 70-80% ha chiuso perché non aveva clienti e per noi questi sono sbocchi di vendita importanti. Contiamo sul fatto che nei prossimi mesi ci sia davvero questa ripresa. Credo che l’estate sia ormai in buona parte compromessa, una vera e propria ripresa del turismo la vedo nella stagione invernale. Quello che abbiamo imparato durante la crisi è che non si deve essere troppo concentrati su un settore specifico, motivo per cui oltre a essere già ben organizzati, e lo faremo ancora meglio con l’e-commerce, puntiamo a servire anche la grande distribuzione, che è quella che addirittura ha beneficiato della crisi. Una buona parte di quello che non si è venduto nei ristoranti e nei bar si è venduto nei supermercati. I nostri brand essendo di alta gamma erano poco o addirittura per nulla presenti nella grande distribuzione.

Il Polo del Gusto è orientato ad espandere l’export, nel 2019 al 21,2%.  Ritiene che il mondo resterà globalizzato dopo il Covid-19?

Affinché un secondo miracolo economico italiano si compia occorre una condizione interna che è la semplificazione e una esterna che consiste nel non interrompere la globalizzazione dei mercati. C’è chi minaccia di farlo, però secondo me è tecnicamente impossibile, basta pensare alla Apple: se gli Stati Uniti mettessero un embargo alla Cina, l’azienda di Cupertino chiuderebbe perché una parte della sua produzione è proprio lì e non si tratta solo dell’assemblaggio dei pezzi, ma in Cina si è creata una rete di imprese che realizza la componentistica progettata negli Stati Uniti, sulla quale poi troviamo scritto “designed in Usa e manufactured in China”. È inimmaginabile che la globalizzazione venga bloccata o frenata in maniera significativa. Se qualche politico vaneggia pensando di interrompere la globalizzazione con la politica dell’America first, sono certo che ci saranno tanti imprenditori che lo convinceranno che è una follia, un boomerang.

Il Polo del Gusto è una s.r.l. nata un anno fa. Con quali tempistiche e modalità puntate alla Borsa?

Quando individueremo il partner finanziario, ci aspettiamo che ci proporrà di trasformare le società in s.p.a.. Mettiamo già in conto che nel giro di uno o due anni il Polo del Gusto diventi s.p.a.. Il partner ci aiuterà a far crescere ancora più in fretta le società esistenti, ad acquisirne di nuove primariamente nei settori del vino, dei biscotti e delle caramelle. L’idea non è tanto quotare il Polo del Gusto, perché le conglomerate in genere vanno a sconto nelle valutazioni, ma aspettare un po’ di più, infatti al partner finanziario chiederemo almeno dieci anni di impegno. L’idea è quotare le singole società operative, quindi Damman, Domori, Mastrojanni, viste la loro dimensione e redditività.

Che quota del vostro fatturato complessivo riveste il caffè?

Il caffè ha superato abbondantemente i 500 milioni di euro, oltre l’80% del fatturato complessivo del Gruppo Illy ed esporta i due terzi della sua produzione. Il Gruppo Illy esporta circa il 60%. Le società del Polo del Gusto esportano con una percentuale più bassa rispetto a quella del caffè, motivo per cui uno dei nostri prossimi obiettivi è svilupparci all’estero.

Mastrojanni è l’azienda del Polo del Gusto che ha registrato nel 2019  il tasso di crescita più basso (+1,7%) rispetto al 2018. Come se lo spiega?

Quando abbiamo acquisito Mastrojanni nel 2008 abbiamo fatturato 300mila euro, nel 2019 abbiamo chiuso a 2,2 milioni di euro: l’azienda ha avuto comunque un bel tasso di crescita se facciamo un confronto. Mentre per far crescere il tè o il cacao è sufficiente comprare più materia prima, trasformarla e venderla, nel caso del vino noi vogliamo vendere vini fatti con le nostre uve, quindi le vigne rivestono una primaria importanza. Dal 2008 a oggi siamo passati da poco più di 24 ettari a quasi 40, su 109 totali della tenuta, di cui 17 ettari sono dedicati alla produzione del Brunello, 9,6 al Rosso di Montalcino, 12 al Sant’Antimo e meno di un ettaro al Moscadello. Nel 2019 abbiamo commercializzato 120mila bottiglie fra Brunello e Rosso di Montalcino, con una produzione vendemmiale pari a un quantitativo di 180mila. Nei prossimi anni ci sarà un’ulteriore significativa crescita del fatturato: nel piano stimiamo circa tre milioni e mezzo di euro. Un altro dato interessante è che oltre il 60% delle bottiglie prodotte nel 2019 è stato esportato, in particolare sui mercati europeo, statunitense, canadese, sudamericano e asiatico, mentre il restante 40% è destinato al mercato domestico.

È ancora così difficile piantare viti a Montalcino?

Non ci sono diritti, quindi per crescere bisogna comprare vigne. Una volta si potevano acquistare i diritti e trasferirli in vigne già di proprietà, oggi non è più possibile, bisogna comprare le vigne con i diritti sopra, cosa non facile perché i diritti non vengono allargati, sono quelli e la domanda è alta. Il Brunello, come anche il Barolo, è un vino venduto in tutto il mondo, globale, longevo, con un prezzo medio elevato e una buona redditività a ettaro e questo nel tempo ha provocato un aumento delle valutazioni. Ci sono state anche alcune acquisizioni da parte di società o di singoli imprenditori che venivano da altri territori, e qualche volta anche dall’estero, volte a comprare pochi ettari, ma se anche pochi ettari sono pagati un prezzo folle quello poi diventa il prezzo di qualunque altro ettaro e crea una distorsione sul mercato. I prezzi sono cresciuti un bel po’ da quando siamo arrivati. In questi anni siamo riusciti a fare acquisizioni a prezzi ragionevoli, oggi siamo ormai vicini al milione di euro.

A Montalcino avete concluso investimenti importanti, dall’ampliamento della cantina al relais con camere e suites …

Gli investimenti maggiori li abbiamo fatti nelle vigne e successivamente in cantina: uno nel 2011 che riguardava la bottaia e un altro terminato lo scorso anno per l’ampliamento della cantina con la nuova vinificazione, poi c’è il relais, dove gli investimenti sono stati imponenti. Dal 2009 sono stati investiti più di 5 milioni di euro, più altri due milioni per il relais di lusso e altri 800mila euro per l’ampliamento della cantina. La crisi ha azzerato il fatturato del relais che era partito a luglio dello scorso anno anche con il ristorante e che adesso riaprirà a giugno. Per il vino c’è un aspetto singolare: mentre per crescere in una azienda manifatturiera come Domori o Dammann si acquista la materia prima e la si rivende, quindi la risorsa scarsa sono gli ordini dei clienti, nel caso del vino la risorsa scarsa è l’uva della vigna per chi lavora le proprie uve. Questo significa che il 2020 può essere un anno positivo anche se non venderemo tutto il vino ora in commercio, per il Brunello l’annata 2015, perché lo potremo vendere senza problemi l’anno prossimo o più avanti. Questo è il grande vantaggio dei vini longevi. Il 2015 ha una qualità molto elevata, tanto che Wine Spectator ha attribuito al nostro Vigna Loreto 95 punti. Il Brunello si consuma al top dopo una decina di anni, anche se si può venderlo dopo i primi cinque, e resta perfetto fino a vent’anni dopo la vendemmia se conservato in condizioni ottimali. Se quest’anno avremo una buona annata sotto il profilo quantitativo, ma soprattutto qualitativo, il 2020 sarà stato positivo anche se abbiamo perso tre mesi di fatturato del relais.

È un mercato difficile quello asiatico?

Preferisco differenziare. Il Giappone è un mercato molto esigente, dove la qualità è premiata ed è riconosciuto il giusto prezzo. Su quel mercato vendiamo bene Dammann, infatti abbiamo due boutique, ma anche il cioccolato Domori, i prodotti Agrimontana, i vini Mastrojanni. Un altro mercato favorevole è la Corea del Sud, dove siamo posizionati bene con tutti i brand. Invece la Cina e l’India, che hanno un potenziale elevato, ci vedono a uno stato iniziale di penetrazione. Bene anche a Singapore e Hong Kong con Mastrojanni, Domori e Dammann. La Thailandia è un mercato che potrebbe darci delle soddisfazioni, ma i dazi sono pesantissimi, per fare un esempio un vino di Mastrojanni raddoppia abbondantemente il suo prezzo.

Lei ha dichiarato che la Illycaffè, già azienda globale grazie a una presenza in 140 paesi, tra 15- 20 anni potrebbe esaurire gli spazi di crescita, mentre le controllate hanno più margini. Mira a espandere il Polo del Gusto con nuove acquisizioni? Quali caratteristiche devono avere le aziende per entrare a farne parte? 

La caratteristica principale della Illycaffè è usare soltanto caffè della specie migliore, quindi solo arabica, e produrre un unico blend. Vendiamo un prodotto di qualità superiore, ossia super premium, ma anche di prezzo superiore, per questa ragione da qui a vent’anni la nostra crescita avrà raggiunto le percentuali di mercato raggiungibili nei principali paesi dove possiamo esportare e tenderà ad appiattarsi, semmai potrà continuare legata all’aumento della popolazione abbiente a livello mondiale, ma sarà comunque più contenuta, al contrario le società del Polo del Gusto sono tutte piccoline e hanno di fronte a loro un potenziale di crescita enorme, in particolare nel settore del tè e del cioccolato i fatturati possono raggiungere quello del caffè, con un po’ di tempo certo, ma possiamo arrivarci. Per le nuove acquisizioni puntiamo a società che siano possibilmente uniche nel loro settore, come è unica la Illycaffè e come è unica Domori, in qualche misura anche Dammann. Di Domori, però, è ancora più evidente l’unicità perché usa solo cacao fine ed extra-fine, non la varietà corrente forastero, inoltre tosta le fave di cacao a una temperatura più bassa per preservarne la qualità. Per molte aziende il concaggio, il cosiddetto rimescolamento, dura svariate ore ad alte temperature per eliminare umidità, odori sgradevoli e acidità volatile che i cacao fini non hanno, ma a quel punto eliminano anche gli aromi e sono costretti ad aggiungerli, come per esempio la vaniglia. Noi non aggiungiamo né aromi né burro di cacao. Abbiamo una ricetta corta che è composta da massa di cacao e zucchero di canna. Per nuove acquisizioni cerchiamo qualcosa di simile, con caratteri di unicità e con l’obiettivo di produrre il miglior prodotto in assoluto. In una summer school a Verona ho introdotto il concetto di qualità dirompente e l’ho definita in base a quattro parametri fondamentali: il primo è l’uso della miglior materia prima esistente sul mercato senza compromessi; il secondo è un processo produttivo diverso e incompatibile con quello corrente; il terzo è l’attenzione per la sostenibilità sia sociale sia ambientale, dando per scontata quella economica; il quarto avere una qualità tale che sia riconoscibile come superiore anche da un consumatore non esperto. In una degustazione alla cieca il prodotto con qualità dirompente deve emergere come il migliore. Il prezzo sarà necessariamente più alto.

Nel campo del vino a quali nuovi territori puntate?

Puntiamo a vini universali, ad aziende che producono vini conosciuti da tempo, possibilmente da secoli e che sono già distribuiti a livello globale. In Italia oltre a Montalcino c’è la zona del Barolo. Altri territori stanno mirando a diventare universali, ma non troviamo nulla con secoli di storia sulle spalle come i primi due. E poi ci sono le tre zone classiche della Francia, ossia Champagne, Borgogna e Bordeaux. Questi per me sono i cinque territori in cui vengono prodotti vini universali.

Siete geograficamente localizzati nell’area del Prosecco. Non c’è proprio nessun pensiero?

Escluderei la possibilità di investire nel Prosecco. Soprattutto le vicende della crisi sanitaria ancora in corso mi confermano la correttezza di investire su vini universali e longevi. Il Prosecco, che è un vino che comunque apprezzo e che talvolta consumo molto volentieri, non è longevo. Dico questo pur abitando, il caso vuole, a Prosecco, una frazione del comune di Trieste che ha consentito di salvare il nome di questo vino, altrimenti lo avremmo perso come abbiamo perso il nome Tocai. Del resto gli accordi internazionali prevedono che quando c’è una disputa sull’uso di un nome a prevalere sia l’area il cui territorio porta il nome di quel prodotto e in Friuli Tocaj era il nome di un vitigno, non c’era un territorio Tocaj, come invece c’è in Ungheria. La località Prosecco ha consentito il salvataggio e quindi la produzione è stata estesa dal Veneto a buona parte del Friuli Venezia Giulia. Qui a Prosecco producono, con una metodologia tipica del Carso triestino, un vino di struttura, qualche volta mosso ma perlopiù fermo.

Qual è oggi il paese con le migliori condizioni economiche, politiche e finanziarie per investire?

Vengono fatte annualmente graduatorie che vedono l’Italia penalizzata. Nella parte alta di queste classifiche troviamo Paesi come gli Stati Uniti e la Svizzera. Credo che sia la Svizzera il migliore in assoluto, perché ha poche leggi, chiare, fatte applicare in maniera rigorosa, ma chi le applica ha la possibilità di utilizzare il buon senso e quindi anche di interpretarle assumendosi delle responsabilità, cosa da noi impossibile.

Come è nata la sua passione per il vino?

In gioventù, per merito di mio padre, che amava particolarmente i vini bianchi fermi friulani, lo Champagne lo beveva solo quando si doveva festeggiare qualcosa di importante. Aveva deciso di prendere il brevetto di pilota d’aereo e così quando andava a fare pratica all’aeroporto di Gorizia lo accompagnavo. Dopo ci fermavamo a mangiare in qualche trattoria e lì scoprii i miei primi vini. In quel periodo nacque la mia passione per il volo, che poi ho coltivato con deltaplano e parapendio. Successivamente mio fratello maggiore Francesco mi ha portato sulla strada dei vini rossi maturi partendo dalla Francia e arrivando a Montalcino: lui ci suggerì di acquistare l’azienda vitivinicola Mastrojanni. A consacrare definitivamente questa passione fu l’incontro con Luigi Veronelli, che mi invitò a casa sua per un corso sul vino di un paio di giorni per non addetti al settore. Il formatore era Giorgio Grai. Ricordo che con loro assaggiai vini straordinari. La cantina di Gino Veronelli, del quale diventai amico al punto che mi volle presidente del seminario permanente Luigi Veronelli, contava circa 50mila bottiglie: pochi ristoranti al mondo ne hanno oggi una così.

Cosa ricorda di Veronelli?

Aveva già vinto la sua battaglia per convincere i vignaioli a produrre vini di qualità, ma a un certo punto disse di non coltivare le varietà internazionali perché sono coltivate in tutto il mondo. Lui voleva puntare sull’unicità dell’Italia, ben espressa dalla quantità strepitosa di vitigni autoctoni che aveva. Era convinto che si sarebbero affermati anche se non erano conosciuti. Ed ebbe ragione. Fu un visionario. Questo spiega anche perché io guardo a Montalcino e a Barolo: da una parte c’è il Sangiovese grosso, che proprio a Montalcino ha dato il meglio di sé, dall’altra il Nebbiolo.

Qual è il metro del buon imprenditore e qual è lo scarto per diventare un grande imprenditore?

Le caratteristiche dell’imprenditore non sono facili da definire. In Italia, che pure è una fucina di imprenditori perché gli animal spirits, espressione coniata da Keynes, nascono e crescono, la carenza grave è che non ci sono scuole per imprenditori e, mi passi la battuta, molti tendono a rimanere più “animal” che “spirit”, nel senso che rinunciano a determinate possibilità di crescita e di sviluppo proprio perché manca loro una base teorica. Le business school, nate per formare i manager, non sono adatte per gli imprenditori perché la capacità fondamentale di un imprenditore è quella di intuire qual è la necessità del mercato che con le sue conoscenze può andare a soddisfare. Peter Drucker diceva che “imprenditore è colui che fa le cose giuste, mentre il manager è colui che fa le cose nella maniera giusta”. Il grande imprenditore, oltre a capire quale sia la cosa giusta da fare, ha l’umiltà di dover apprendere, di delegare ai manager. Citando ancora Drucker, “un bravo leader è colui che sa attirare e mantenere talenti, senza interferire nella loro attività”. Un bravo imprenditore è al servizio della società e dei suoi manager e interviene quando glielo richiedono. Di questi in Italia ne abbiamo sempre meno. Aggiungo che grande imprenditore è anche colui che oggi interpreta esigenze di sostenibilità e si preoccupa di tutti gli stakeholders della società e non solo di produrre reddito.

Per un imprenditore a grandi livelli è pericoloso  e controproducente fare politica? Ci sta ripensando?

Lo è senz’altro. Bisogna essere consapevoli del rischio. Mi viene in mente una battuta con cui si dice che quando si fa del bene bisogna essere pronti a sostenerne le conseguenze. Anche se in politica si fa bene, bisogna essere pronti ad avere qualche ritorno negativo. Io ho dovuto difendermi presso la Corte dei conti in diverse cause, di cui una l’ho persa, peccato che fosse una causa fotocopia di un’altra in cui sono poi stato assolto. I rischi sono molto elevati, soprattutto di immagine, magari non per responsabilità propria in questioni giudiziarie, ma di assessori della propria giunta o dirigenti della propria amministrazione. Detto questo, persone con capacità spiccate, soprattutto professionisti, imprenditori e manager, dovrebbero dedicare una parte della propria vita, almeno una legislatura, al bene comune. L’Italia, straordinaria quanto a bellezza e ricchezza culturale, ha bisogno oggi di una riforma complessiva perché è imbrigliata in un ginepraio di leggi. Una riforma vera per partire deve però farlo dalla testa. La nostra Costituzione in alcune parti è la migliore al mondo, ma in altre è la peggiore. Siamo l’unico Paese occidentale in cui il premier non ha la facoltà di nomina e revoca dei ministri, ma ha solo una funzione propositiva in tal senso. Seconda necessità assoluta è una legge elettorale che privilegi la governabilità, mentre finora abbiamo privilegiato la rappresentatività. Quanto a me, mai dire mai, anche se ho già dato. Mi candidai sindaco a Trieste nel ‘93 pensando di fare solo un mandato di 4 anni, invece sono diventati 15 tra secondo mandato, due anni alla Camera e cinque alla Presidenza della Regione.

Cosa significa essere liberale? Chi è il più grande liberale della storia per lei?

Essere liberale significa accettare, promuovere e rispettare le regole dell’economia di mercato che si basano sulla libertà di impresa e sulla concorrenza, regole semplici applicate in modo sistematico. Un’economia di tipo liberale è la più giusta che ci possa essere. Se invece siamo in una economia di mercato però qualcuno non rispetta le regole, crea i suoi monopoli e nessuno lo blocca, allora è chiaro che il sistema liberale può essere peggio di una economia di tipo statalista. Il più grande liberale della storia? Adriano Olivetti. Perché rispettava le regole della concorrenza.