In questi giorni, soprattutto in queste ore, in Italia, terzo paese più colpito al mondo dal coronavirus, il tema della sicurezza e della salute si intreccia con l’aspetto economico. Ne parliamo con il professore e deputato Renato Brunetta.

Ma quali sono i risvolti a parte la corsa all’accaparramento nei supermercati? Cosa comporterà la limitazione, seppur doverosa, dei cittadini, la rinuncia degli ordini che possono provenire da paesi che sono stati messi in discussione? 

Quando la situazione si fa calda bisogna tenere la testa fredda, come diceva un vecchio adagio. Prima di tutto la salute ovviamente, quindi via libera ai controlli. Io faccio di mestiere l’economista non l’epidemiologo, probabilmente sono deviato dal mio mestiere. L’economia è un insieme di equilibri delicati: si compra, si importa e si investe se si ha una visione di medio periodo, se c’è una visione positiva del futuro. Se cancello il futuro, nego l’economia e precipito nell’abisso della recessione. Io sono per le frontiere aperte, per Schengen, per mercati aperti, per una visione ottimistica del futuro con un grande senso di responsabilità per la salute. Bisogna mettere in atto ogni azione finalizzata al controllo e a risolvere il problema epidemiologico. Fermo restando che avendo la migliore sanità al mondo siamo anche in grado di poter garantire tutto questo. Abbiamo i migliori ospedali e centri di ricerca. Siamo attrezzati. Se ci fosse un eccesso di zelo, per la salute questo e altro. Andrebbero però uniformate le voci, concentrati i luoghi di comando e controllo. Che un po’ di sindaci si sveglino e impediscano l’ingresso nella loro meravigliosa isola ai cittadini cinesi, veneti e lombardi salvo poi essere contraddetti per fortuna dal loro prefetto, ecco queste cose andrebbero evitate. Andrebbero evitate fughe in avanti. Prima di tutto la salute, la profilassi, i controlli, ma attenzione all’impatto che ogni singola azione può avere sull’economia, sulla nostra vita di tutti i giorni. Qualche giornata in più di festività su base annua vale un decimale di Pil.

E infatti negli anni ’70 Andreotti tolse qualche festività per questo motivo…

Venti giorni di festività forzate in parti molto ampie del territorio comportano rischi sul Pil, sulla nostra crescita, sui nostri consumi, sulla nostra occupazione e quant’altro, impattano per uno o addirittura due punti, altro che decimali. Ci vuole molta attenzione. Stiamo riflettendo su questo. Occorre pensare a degli indennizzi, a dei ristori per quelle attività economiche o commerciali che hanno subito o stanno subendo o potranno subire effetti negativi per via delle necessarie e giuste misure di prevenzione. Quindi testa fredda. Va raccontata tutta la verità senza indulgere, senza parossismi devianti. Io ho trovato Roma del tutto tranquilla. Fiducia nella sanità.

Noi siamo un paese fieristico. La cancellazione di alcune fiere in Italia, anche del vino all’estero, quali risvolti avrà sull’economia?

Leggo da un comunicato dell’associazione degli enti fieristici che avremo già perso un miliardo di euro per aver bloccato le fiere già programmate. Fiere che creano business anche per gli anni successivi. Il nostro paese non sempre ha dato prova di equilibrio nelle situazioni negative. 

E del calo della Borsa, che a Milano perde il 5,4%, cosa ci dice?

Mi preoccupo meno del calo delle Borse, perché salgono e scendono, invece mi preoccupa di più la cancellazione di tutta la stagione fieristica perché quella è una perdita secca e l’Italia è un paese fieristico, come abbiamo ricordato, questo è un danno che non si cancella ma si capitalizza. La finanza di breve periodo e lo spread che è cresciuto di dieci punti non mi preoccupano perché possono mutare domani o dopodomani, mi preoccupo di più degli  effetti strutturali dovuti a fenomeni estremamente congiunturali e parossistici.