Prosegue il nostro ciclo di interviste sul Metodo Classico dell’Oltrepò Pavese, un prodotto d’eccellenza che ha bisogno di una vera punta di diamante in grado di trainare tutti gli altri a un livello reputazionale insindacabile.
Per avere qualità insindacabile delle due strade l’una: o coltivare la propria vigna con uno scrupolo assoluto e, a monte, investimenti imprenditoriali importanti – cosa che oggi fanno in pochi – o come i negociant manipulant d’oltralpe acquistare solo uve d’eccellenza (al giusto prezzo remunerativo del lavoro) da conferitori controllati e selezionati che si devono attenere a protocolli rigidi e a rese bassissime, senza compromessi. In alcuni territori quest’ultima strada è percorribile, in altri più tortuosa.
Intervistiamo Ottavia Giorgi di Vistarino, al timone dell’azienda di famiglia che ha collaborato nel lontano 1865 al primo spumante Metodo Classico italiano da Pinot nero con Gancia e che, grazie alla visione del conte Augusto Giorgi di Vistarino, nel 1850, a Rocca de’ Giorgi, aveva già piantato le prime barbatelle di Pinot nero, importandole direttamente dalla Francia, dando così avvio alla sua coltivazione sul territorio, motivo per cui  la Conte Vistarino è considerata oggi la casa del Pinot nero.
Ottavia Giorgi di Vistarino è in procinto di partire per Boston. Negli Stati Uniti sta intensificando la rete vendita (“è un mercato in cui non si va pronti per vendere, occorre costruire una credibilità con anni e anni di lavoro”). Un programma, il suo, con focus sulla valorizzazione del Pinot nero, vinificato in rosso e Metodo Classico, che la vedrà oltreoceano per buona parte dell’anno, forte di un 2022 speso per il posizionamento del marchio sui mercati esteri e per la strutturazione dell’azienda, a monte un lavoro incessante sulla qualità (“abbiamo lavorato tantissimo in campagna, investendo molto di più degli anni precedenti, con una resa decisamente più bassa, difendendoci dalla siccità”).
Un anno conclusosi positivamente per quanto riguarda la denominazione nel suo complesso, complice l’interesse crescente del mercato per il Pinot nero. “Abbiamo chiuso degli accordi con partner commerciali ‘giusti’, quelle partnership che dovrebbero durare per lungo tempo per poter costruire un marchio sul mercato di riferimento. C’è una domanda florida e la fascia alta di posizionamento è l’unica che rende”, spiega Ottavia Giorgi di Vistarino. “È fondamentale scegliere il partner adatto al posizionamento del proprio marchio perché un venditore sbagliato, che non fa una politica di prezzo adeguata al prodotto, può svilire un brand”.
A proposito del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese: “Il Consiglio, volente o nolente, si trova a dover parlare di Pinot nero non perché lo vogliono i consiglieri, i soci, ma perché è il mercato a volerlo, sono gli opinion leader, i giornalisti che ce lo hanno chiesto. È un po’ triste questo, perché siamo noi in primis che dovremmo puntare sul vitigno e decidere di parlarne, invece c’è una frangia di produttori che vorrebbe promuovere altri vini. Comunque sia, noi andiamo avanti e cerchiamo di far bene e sempre meglio. Del resto non siamo noi produttori che abbiamo scelto di piantare il Pinot nero in Oltrepò Pavese, ma è il Pinot nero che ha scelto noi, che ha scelto questa terra estremamente vocata al vitigno”.
Quanto alle bottiglie di Metodo Classico prodotte da Conte Vistarino: “Oggi sono esigue perché per poterle realizzare ci deve essere a monte un progetto che dura degli anni. Quando ho iniziato a lavorare in azienda non avevo la cantina adatta, gli spazi, il giropallet per il remuage. Mi sono buttata sul Pinot nero vinificato in rosso perché ho capito che avevo dei vigneti meravigliosi, che bene o male con un tino di legno e tre barriques potevo dire che qui si faceva del Pinot nero di qualità e in tre anni presentarlo al mercato. Quando si fa Metodo Classico si ha bisogno di un’organizzazione diversa, di una tecnologia diversa, di uno spazio per le cataste che magari stanno lì 4 o 5 anni, se parliamo di Pinot nero. Oggi siamo consapevoli che dobbiamo acquistare quello che ci serve perché la produzione cresce”. Puntualizza: “Io, comunque, preferisco partire con un numero ridotto di bottiglie per avere una crescita che il mercato assorbe. Non mi interessano quantitativi importanti che poi non riesco a vendere o che il mercato non richiede. I passi devono essere misurati, per rispetto del lavoro, del denaro e non secondariamente del vitigno e del vino, che non deve essere svenduto perché in esubero. Io voglio tenere un certo prezzo non perché un vino più è caro più è buono, ma perché per far bene e per farlo buono spendo, investo. Se le aziende vinicole non investono, muoiono. Se io anni fa, quando si parlava di Cruasé, avessi prodotto un numero di bottiglie che un’allora figura di rilievo del Consorzio mi aveva chiesto di mettere sul mercato, oggi le avrei tutte in casa”.
Cosa manca allora per fare il salto di qualità con il Metodo Classico? “Sul territorio si producono vini molto buoni, però manca la punta di diamante capace di metterci a confronto con i grandi champagne del mondo. Penso, in generale, a note aziende che magari hanno un prodotto di largo consumo ma contestualmente anche punte di diamante con dieci anni e più sui lieviti, prodotti di grandissima eccellenza che si fanno pagare molto bene e che portano avanti il brand e il territorio. A noi questo manca, perché se da un lato abbiamo una lunga tradizione sulle vigne dall’altro abbiamo una storia recente sul mercato. Ma ci arriveremo grazie ai giovani che stanno allargando la loro visione e sono intraprendenti. Quando Conte Vistarino produsse il primo spumante da Pinot nero in Oltrepò, nel 1865, il successo fu clamoroso, ma il suo futuro roseo fu stroncato dall’avvento dell’autoclave con Martinotti, che allettò tutti i più grandi piemontesi con i tempi decisamente più ridotti di permanenza in cantina rispetto al Metodo Classico. È il solito problema degli italiani, che scelgono la scorciatoia e poi alla fine prendono il muro in faccia. Negli anni ’80-90 una nuova grande richiesta del Metodo Classico ha visto la Franciacorta subito pronta a partire, mentre l’Oltrepò era dietro le cisterne a fare il metodo Martinotti”.
A proposito della Losito e Guarini, storica realtà imbottigliatrice oltrepadana, che, pare, uscirà con un proprio Metodo Classico, commenta: “Se il prodotto è buono ed è venduto a un prezzo corretto per un Metodo Classico, ci sta che costi meno di un grande marchio. Non dimentichiamo lo champagne che ha nel Dom Perignon l’eccellenza ma ha anche Moet & Chandon che fa milioni di bottiglie a prezzi molto diversi. Le due realtà possono coesistere, ovvio che il vino più commerciale non sarà buono come quello del vigneron”. Continua: “Penso che sia una buona cosa che la Losito e Guarini, che puntava tutto sulla Bonarda frizzante, si sia messa a fare Metodo Classico. Se ha deciso di produrlo è perché c’è richiesta del prodotto e ha capito che per ottenere un margine ci vuole la qualità. Può fare molto bene perché ha la forza per portare il marchio in giro per il mondo. Dove può e dove possono far male le aziende del territorio? Nel vendere il prodotto a un prezzo troppo basso che non lo faccia percepire come eccellenza o comunque di qualità. Se il tartufo bianco fosse accessibile a tutti non sarebbe così ambito oggi”. Conclude: “La Losito e Guarini potrà essere un grande alleato dell’Oltrepò, che io mi auguro ami veramente, altrettanto mi auguro che capisca che se Conte Vistarino vende sullo scaffale a 20 euro, potrà farlo a 15 o 12 ma non a 5, perché se si vuole salvare la viticoltura di collina l’uva si deve pagare in maniera congrua. Se la Losito e Guarini è riuscita a fare queste bottiglie, è grazie a del vino sfuso che ha acquistato in una cantina dove ci sono stati probabilmente dei conferitori che hanno portato l’uva. Questi conferitori si stanno lamentando che l’uva di Pinot nero in collina è pagata troppo poco. In effetti non può costare meno di 110-120 euro al quintale. Perché in altre zone, come ad esempio il Trentino, l’uva è pagata più di 200 euro e noi dobbiamo accettare di fare la figura degli impoveriti quando in realtà il mercato accetta quello che gli diamo nel momento in cui lo facciamo bene? Perché la cattiveria e/o l’ignoranza di stroncare i viticoltori locali? Se vogliamo avere una valenza sociale e chiedere ai produttori di uva di far bene, comportarsi bene e offrire un prodotto di qualità, li dobbiamo pagare. La bottiglia quando comprende l’etica del lavoro non può costare meno di una certa cifra. La Losito e Guarini farà bene nel momento in cui le uve per merito suo saranno pagate in questo modo. Un imbottigliatore è partner del suo territorio se si comporta virtuosamente”. Affonda: “Il vino si fa con l’uva, ma se disincentiviamo i viticoltori domani non potremo più farlo con l’uva. Dobbiamo produrre meno vino e farlo più buono o siamo indietro di trent’anni perché la gente beve meno e vuole bere sempre meglio”.