Ascoltare Roberto Cipresso è come leggere un (buon) libro: più della tecnica, oltre la tecnica c’è l’emozione. E quel sano raro stupore che ancora, dopo tanti anni, è sempre lo stesso. Ethos, logos pathos: nel suo modo di comunicare e di essere c’è tutto, come direbbe Aristotele. Anche se la pandemia ha scombussolato i piani. “Avevo prenotato il volo per l’Argentina con riserva, ma al contrario di quanto speravo, e ho sperato fino all’ultimo, non sono riuscito a partire. In programma c’erano tre settimane in vigna, dove in questo periodo si sprigiona tutta l’energia di un anno di lavoro. Il magnetismo nella raccolta dell’uva e nel successivo passaggio in cantina è impattante, da vivere più che da vedere o raccontare. Ormai manco da un anno da quella che considero la mia seconda casa”, commenta il wine maker di fama mondiale Roberto Cipresso, bassanese di origini, con svariati progetti in ogni parte del mondo, da poco anche sull’isola di Maiorca, ma fisso in Toscana, a Montalcino, dove con il concept 43° Parallelo e con WineCircus, un laboratorio sperimentale in collaborazione con alcune università, in cui svolge attività di ricerca e sviluppo e crea delle edizioni limitatissime, bottiglie-evento cui è difficile attribuire un prezzo, ha intrapreso una strada ‘sartoriale’. “L’anno scorso a marzo mi avevano fatto rientrare in Italia con un volo speciale, sempre a causa del coronavirus, e quest’anno la situazione è la stessa. È impressionante come in un anno non sia cambiato niente, o poco. Seguire un vigneto e una vendemmia in maniera digitale non è proprio la stessa cosa. Io vivo di emozioni, ho bisogno di emozionarmi, del contatto con ciò che faccio, di mettere le mani nell’uva e nel vino. Creiamo qualcosa che è tremendamente vivo, in continuo mutamento”.
Nel Sud del mondo, dove le stagioni sono invertite rispetto a noi, è infatti tempo di raccolta. In Argentina per la vendemmia 2021, in corso, è previsto un calo del 6%. Secondo l’INV (Instituto Nacional de Vitivinicultura) il raccolto sarà di 19,323 milioni di quintali di uva, una quantità inferiore del 6,39% rispetto al 2020 (quando i quintali erano stati 29,557). A compromettere il raccolto diversi episodi di gelate e grandine nei mesi scorsi. Nella provincia di Mendoza, la più importante regione vitivinicola del Paese, è previsto un raccolto di 13,2 milioni di quintali (-9,33% rispetto al 2020).
“L’Argentina è una terra condannata al successo. Dal Nord alla Patagonia, dai condor e dai pappagalli ai pinguini per intenderci, ci sono un’estensione e una varietà di spazi e climi che apportano una complessità incredibile nei vini. La colonna vertebrale è la Cordigliera delle Ande, circa 7000 metri di altitudine, una tra le catene montuose più lunghe al mondo, con ghiacciai, vulcani, praterie, zone desertiche, laghi, foreste e sulle cui montagne si trovano siti archeologici pre-colombiani, il punto più alto è l’Aconcagua. Quando pensiamo al vino argentino pensiamo al Malbec. In Argentina si produce circa il 75% del Malbec del mondo, praticamente non c’è concorrenza. Qui il Malbec cresce in maniera unica, ottimale. È un’uva camaleontica e i vini hanno un’impronta molto riconoscibile, sono “drogati” dalla luce”, spiega Roberto che, tra gli altri numerosi riconoscimenti, riuscì a strappare a Robert Parker un 99/100 con il Malbec Achaval-Ferrer Finca Altamira 2009 e che dell’Argentina, dove a San Juan arrivò nel 1995 chiamato da una grande azienda per uno studio di fattibilità, conosce praticamente tutto e riesce a sostenere ogni tipo di discorso, anche politico ed economico. “In Argentina in questo periodo non è difficile acquistare vigneti con viti monumentali, vecchissime. Chi arriva ora con la valigia con dentro quattro banconote può portare a casa qualcosa di buono. Con un dollaro si comprano 150 pesos. Occasione per comprare una casa”.
Con Santiago Achaval e Manuel Ferrer fondò pochi anni dopo l’ incontro del 1995 la cantina “bodega” Achaval-Ferrer. I primi due fecero l’investimento iniziale a Mendoza, nella Valle de Uco, e a Roberto e al suo intuito il compito di ricercare i terreni migliori per farne dei vigneti votati all’eccellenza. “Li convinsi ad acquistare un vecchio terreno completamente abbandonato, con viti di Malbec di 80 anni, vicino al deserto e a un fiume salvifico che ne permise la coltivazione. All’inizio i miei soci non erano dell’idea, ma solo tre anni dopo la rivista americana Wine Spectator dichiarò che quel vigneto aveva prodotto il vino più buono della storia dell’America Latina. Dopo aver scoperto in questo modo Finca Altamira, un museo monumentale all’aperto, ci chiedemmo se quello fosse l’unico, sporadico caso di un terroir capace di emozionare un pubblico fino a quel momento abituato a vini estetici e molto new world. Io, invece, portavo la cultura europea. Trovammo così le vigne Bella Vista, a Perdriel, subito a sud di Mendoza, e Mirador, un vigneto molto vecchio, che esisteva già prima del trattore. Questi tre vini hanno creato una nuova direzione per l’Argentina che successivamente ha abbandonato il lato più hollywoodiano della materia per andare alla ricerca di una maggiore intellettualità. Dopo la gratificante esperienza con la bodega Achaval-Ferrer, sempre con Santiago Achaval nacque il progetto Mater Vini”.
Le zone di produzione sono principalmente tre: San Juan, dove tra l’altro il Syrah ha trovato la sua patria argentina, Salta e in particolare i terreni di Cafayate, un luogo maestoso per la natura che lo circonda e le montagne dai colori più sgargianti, Mendoza che è la più importante ed è divisa nelle sottozone Maipù, Lujan de Cuya e Valle de Uco. Mendoza è il centro, ma la zona di produzione del Malbec si estende quasi per 2000 chilometri a nord e a sud fino alla Patagonia. “Le sue espressioni, pur partendo da un comune dna, non possono che essere molto diverse: per fare un paragone è come se lo coltivassimo da Londra a Marrakech. Nel Nord abbiamo espressioni più piene, balsamiche, fruttate, fresche, al confine con la Patagonia i vini sono più speziati, nervosi”, continua.
Suoli e climi fanno fanno sì che in Argentina non esista un Malbec ma differenti Malbec. “Il clima è molto variabile per via della grande estensione latitudinale e per la differente altitudine. Si passa da temperature tropicali o sub tropicali a quelle più continentali. È facile essere biologici in Argentina, dove le malattie fungine sono quasi sconosciute: il clima è secco, c’è tanto sole, tante ore di luce, una scarsa piovosità. Il problema semmai è nella mancanza di acqua e nelle grandinate estive pre vendemmia che possono essere molto pericolose”.
Ai piedi delle Ande, a Mendoza, che si trova su un altopiano a circa 1000 metri di altitudine accanto a un antico vulcano di quasi 7000, in particolare nella Valle de Uco, i vigneti sono coltivati anche oltre i 1500 metri di quota. “L’altezza e l’aria più fresca garantiscono un’acidità sufficiente alle uve in una regione di per sé molto soleggiata. Quindi riusciamo a coniugare una buona maturazione, un’importante parte fruttata e tannini maturi con un’ottima freschezza. In questa zona il Malbec si presta a lunghi invecchiamenti e a maturazioni in legno, mentre nelle zone più basse è meglio berlo giovane”.
A Mendoza si trovano vigneti monumentali, di oltre cento anni di età, che sono sopravvissuti alla fillossera grazie al suolo morenico ricoperto in superficie da ceneri e gessi frutto delle antiche eruzioni vulcaniche. Roberto non ha dubbi: “Vigne vecchie, a piede franco, densità elevata di 8000 piante per ettaro, rese basse perché il 90% di queste viti non produce più di 500 grammi di uva e l’assenza di chimica in vigna indirizzano la qualità e creano certamente un unicum, ma il futuro del Malbec argentino non è nella Cordigliera delle Ande, una formazione montuosa relativamente giovane, di “soli” 30 milioni di anni, bensì nella pre-cordigliera risalente a 300 – 500 milioni di anni fa, prima dei dinosauri. Per me questa fu una scoperta entusiasmante che feci a Cafayate dove fra condor, cactus e colibrì scoprii rocce colorate di blu, giallo, verde, non ossidate. Successivamente scoprimmo che anche a Mendoza c’era la pre-cordigliera e così nacque il progetto Mater Vini, sottotitolato ‘Antes Andes’ cioè ‘prima della Cordigliera delle Ande’. Arrivammo a capire che l’Argentina non era solo un nuovo mondo che possedeva elementi di forte carattere, ossia le viti vecchie su terreni più recenti, ma aveva le terre più antiche del pianeta. Qui bisognava e bisogna tuttora investire. In futuro ci piacerebbe arrivare all’esplorazione del Sud fino alla Patagonia.”
Ma qual è la differenza tra lavorare in Italia e all’estero? “Noi siamo ricchissimi di storia e questa storia la possiamo associare ai nostri vini. Tutto ciò è sicuramente un elemento di forza che ci rende unici, ma al tempo stesso un po’ schiavi perché pur vedendo con certezza delle strade percorribili non ci avventuriamo. Il motivo è che siamo legati alle tradizioni. La nostra storia però è costellata di errori drammatici, come le varietà giuste nel posto sbagliato o viceversa, ma si è continuato su quella strada perché la storia lo imponeva. Quante volte ho sentito frasi del tipo ‘ma qui si è sempre fatto così’. Penso al Primitivo di Manduria, una varietà precoce, che con Manduria non c’entra nulla, anche se oggi ci sono viti di 80 anni con un loro perché. ‘Tradizione’ e ‘tradimento’ hanno la stessa comune radice ‘tradere’. Molte volte senza inventare nuove cose basterebbe solo aggiustare quello che c’è e che diamo in eredità ai nostri figli”.
La tradizione ha senso, sottolinea, se coniugata con il genius loci della cultura francese. “I francesi coltivano il refosco dal peduncolo verde, una varietà amara, vegetale, che da loro cresce oltretutto in una zona fredda dove questi elementi negativi vengono un po’ accentuati. E allora cosa si inventano? Con la scusa del foie gras o di Napoleone o della Marsigliese sdoganano e creano una suggestione tale intorno a questi vini che quando vai ad assaggiarli gli dai un significato. Anche noi dovremmo fare così: una varietà che vale otto portarla a dieci grazie a un contesto e lì farla vivere, non pretendere di portarla in giro per il mondo. Ad esempio, la dorona non è l’uva più performante del pianeta, non è un Riesling o uno Chardonnay, ma è giallona, era l’uva d’oro dei dogi. Però se vieni a Venezia, sull’isola di Mazzorbo, entri nella chiesa sconsacrata che è diventata un ristorante stellato, ti siedi a fianco dei vigneti allora e solo allora non ti chiedi se ci sia un vino più economico, perché paghi un’esperienza che ti evoca altro. Noi abbiamo interpretato la dorona come se fosse un vino rosso, uno Sherry, facendone una chiave di accesso a tantissime emozioni, se però la mandiamo a New York a competere con un Sancerre abbiamo perso la nostra partita. La tradizione ha senso se vissuta in un luogo specifico, come il vino da uve schiava, per fare un altro esempio, che se lo degusti in un castello dell’Alto Adige con lo speck va benissimo, altrimenti certe chicche non sono capite e le sprechiamo. Quindi, alla domanda se sia più facile lavorare in Italia o all’estero, è più facile lavorare nel Nuovo Mondo perché c’è meno storia, più libertà, più interpretazione. Se ai nostri figli tramandiamo la tradizione tale quale, se facciamo l’ennesimo copia incolla di cose di un altro tempo in un mondo che cambia non progrediamo”.
Cosa rende grande un vino? Roberto non ha dubbi e quando racconta ha la straordinaria dote di lasciarti impressa una fotografia: “Un grande vino per me deve essere lo specchio più intimo possibile dell’uomo, deve emozionarmi, mi deve portare in un tempo, deve evocarmi un mondo. Ma la cosa più affascinante e difficile è che deve portarmi in un luogo specifico perché è pienamente coerente e in equilibrio con il suo terroir. In un vino devo trovare il mare o la montagna o la collina. Più il terroir è forte più la varietà è debole e si annulla. Ed è lì che riesce a far apparire il paesaggio che sta dietro”.