IL NOSTRO SOMMELIER AIS VI PORTA… SUI COLLI PIACENTINI

Per quanto possa sembrare suadente, persino ammiccante, la Sernagiotto non è una distinta signora del vino, come sempre più spesso e piacevolmente capita di incontrare nel mondo vitivinicolo, bensì è una pressa a nastro, ma non per questo non possiamo definirla la compagna di vita di Graziano Terzoni, enologo e proprietario dell’azienda Podere Pavolini a Bacedasco Alto, comune di Vernasca, sui colli piacentini.
L’Azienda dopo mezzo secolo di conduzione del padre Luigi, che agli inizi vendeva vino per lo più sfuso, negli anni ‘80 passa a Graziano, rientrato dagli studi enotecnici di Alba. Suo obiettivo è valorizzare le uve prodotte in questo territorio non proprio largamente conosciuto. Podere Pavolini si sviluppa su 5 ettari collinari a forte pendenza, fra i 200 e 250 metri slm, in Val d’Arda, le ultime propaggini dell’Appennino ligure dentro la Pianura Padana. Siamo nella Doc Colli Piacentini. I terreni sono di origine pliocenica, di grande spessore, ricchi di fossili, costituiti da marne e argille sabbiose e le uve, coltivate in conduzione biologica, sono prevalentemente malvasia, ortrugo, fortana e croatina.
Merita soffermarsi sulla fortana, non così nota.  Si tratta di un vitigno a bacca rossa con elevata acidità, sapido, tannico e non troppo alcolico, adatto alla spumantizzazione, che viene coltivato principalmente nella zona Bosco Eliceo, in provincia di Ferrara e Ravenna, ma anche nella Pianura Padana fra San Secondo Parmense, Soragna e Busseto, zone dove il Fortana del Taro ha acquisito la menzione di Indicazione Geografica Tipica. È uno dei pochi vitigni italiani a piede franco, che non ha dunque richiesto l’innesto sulla radice della vite americana agli inizi del secolo scorso, grazie appunto al terreno sabbioso di questi territori che non ha consentito lo sviluppo della Fillossera. Questo vitigno a maturazione tardiva, detto anche uva d’oro, oppure brugnola, prungentile o uva francese nera, risale a Renata di Francia, figlia del Re Luigi XII, sposa di Ercole II d’Este, che divenne duchessa di Ferrara e intorno al 1528 ne avrebbe portato in dote alcune barbatelle dalla Borgogna. Vi sono anche testimonianze di coltivazioni risalenti al secolo scorso in Oltrepò Pavese. Fortana sta per “fruttana”, riferito alla ricchezza della sua uva, oppure all’essere un vitigno “forte”, resistente, appunto, alle malattie.
Queste colline piacentine sono appartenute al Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla (1545-1859), che nella sua lunga storia di oltre tre secoli ha visto spiccare la duchessa Maria Luigia d’Austria, precedentemente imperatrice e moglie di Napoleone. E quando su queste terre si incontra un produttore di vino con una lunga esperienza alle spalle come Graziano Terzoni, a parte il piacere nel condividere passioni e conoscenze, si scopre che la filosofia e il metodo che portano alla realizzazione di grandi vini, in particolare nella spumantizzazione, riescono a focalizzarsi sulla pianta, magari sulla selezione delle uve o in particolare sulla pressatura, oppure nella vinificazione con un rigido controllo della temperatura in fermentazione. Oppure nell’affinamento. O in tutte queste cose assieme, senza tralasciare nessuno degli aspetti importanti che poi finiscono nei buoni calici di bollicine, in questo cammino che da qualche anno ci porta a divagare fra Emilia e Oltrepò Pavese.
Graziano Terzoni, già collaboratore di Luretta, certamente una fra le aziende fondamentali per l’Emilia delle bollicine, domina la sua cantina delineando una filosofia produttiva ben precisa: «Adoro le uve della mia terra. Ho capito che malvasia, ortrugo, fortana, croatina arriveranno sempre seconde se continuiamo a mandarle nelle stesse scuole, a studiare con gli stessi metodi dei Pinot, degli Chardonnay, dei Sauvignon. Intendo dire che se ci si limita a copiare gli schemi di vinificazione di questi storici vini, non si può sperare di ottenere il meglio dai nostri vitigni». Dialogando con Graziano Terzoni emerge chiara la sua idea di vino spumante, sottolineando alcuni punti fondamentali, come il rifuggire alchimie, ricercando un’acidità che quando entra in bocca (e prosegue per l’esofago) sembri seta e non carta vetro,  il non avere fastidiose note amare e svolgere la fermentazione malolattica sempre. Oltre ad avere una cura particolare per gli acini in pressa: «Se potessi schiaccerei gli acini uno ad uno con l’indice e il pollice, perché otterrei un estratto ancor più alto».
Se andate a visitare Podere Pavolini, la prima cosa che vi mostrerà Graziano è proprio la sua straordinaria pressa. Subito la grande Sernagiotto, che domina la parte cortiliva coperta dell’azienda, sembra apparire un po’ come la gigantesca macchina infernale del film The Mangler del 1995, dove Tobe Hooper sviluppa in chiave horror uno dei tantissimi racconti di Stephen King. Concedetemi questo salto tematico. Nulla di tutto ciò, ovviamente. La verità è che, anche da quanto Graziano Terzoni scrive dettagliatamente sul sito aziendale, emerge scienza e criterio, tecnica e rispetto delle uve. «Un enologo è come un sarto: dopo aver visionato la stoffa, prende ago e filo per creare un’opera nuova che deve piacere a chi l’ammira. La parola magica è eleganza. Faccio di tutto per creare vini eleganti dove un sorso tira l’altro. Perciò nell’uva ricerco i tannini buoni, gli aromi delicati e l’armonia nel gusto e retrogusto. Anche a scapito della potenza e della muscolarità, che un sarto coprirebbe con le sue stoffe migliori».
Potremmo disquisire piacevolmente per ore, ma più che parlare, i vini del Podere Pavolini sono da assaggiare. E godere. A partire da Spirito Libero, l’ultima creazione di Terzoni durante i recenti lockdown pandemici: si può avere un metodo classico pronto subito, economico, ma ben fatto, se dopo il Covid avremo una crisi economica irreparabile? La risposta è chiaramente sì. Ebbene, si può avere, certo. Provare per credere. Già il fatto di ricevere uno spumante nella mezza bottiglia che anche per l’etichetta sembra più una birra che un vino, la dice lunga sulla genialità del suo creatore. Uve top secret nella combinazione, ma prevalentemente sono rosse come la croatina. Un vino suadente, così vellutato e fine nelle bollicine da non credere per una sosta sui lieviti di soli 9 mesi. Anche su questo aspetto dell’affinamento sur lie, Graziano ha le opinioni molto chiare, a partire dalla considerazione che un lievito, a fine fermentazione va in lisi, cioè esaurisce la sua funzione vitale: le cellule si rompono consentendo la fuoriuscita del citoplasma contenente tutte quelle sostanze che oltre a dare sapore al vino permettono alla CO2 di sciogliersi sempre di più nel liquido per formare bollicine più fini. Ciclo che può considerarsi completato già intorno ai 18 mesi. Dunque ci si potrebbe interrogare sul fatto che le lunghissime soste sui lieviti siano pensate più per elevare il prestigio, quindi il costo di uno spumante (o di uno Champagne), piuttosto che essere un reale, necessario e migliorativo completamento evolutivo.
La produzione di Podere Pavolini è divisa fra metodo classico e rifermentati in bottiglia, oltre ad offrire il bianco fermo Aquapazza,  il passito Ipergea, da malvasia di Candia, il rosso fermo Tripolo, 100% Bonarda piacentina (croatina). Le bollicine si chiamano Lady Giò Special Cuvée, un brut vinificato in bianco da uve ortrugo, fortana e pinot nero, con fermentazione in acciaio e affinamento sui lieviti da 24 a 36 mesi; Lady Giò Rosé, frutto delle stesse uve, fermentazione in acciaio e sosta dai 24 ai 36 mesi. L’altra linea di metodo classico si chiama Les Rois ed è declinata nel Brut Rosé da uve pinot nero e fortana, con fermentazione in acciaio e sosta di 30-35 mesi sui lieviti, nel Brut Special Cuvée, anche con ortrugo, affinamento in acciaio e in parte in legno, sosta sui lieviti di 30 mesi, entrambi con dosaggi fra 7 e 8 gr/l, e a chiudere la linea il Cuvée de Reserve Pas Dosée, da uve rosse frutto dell’assemblaggio di tre annate, fermentazione in acciaio e legno, con una sosta sui lieviti di 60 mesi. Sheila, altra elegante etichetta, in questo caso è un Blanc de Blancs millesimato da uve autoctone non meglio dichiarate, fermentazione in acciaio e una lunghissima sosta sui lieviti di 150 mesi. I rifermentati in bottiglia sono Badessa Santafranca, da uve malvasia aromatica di Candia in purezza, e Terre di Bigarola, da uve ortrugo.
La produzione complessiva del Podere Pavolini si attesta sulle 30.000 bottiglie annue.
Potremmo addentrarci più dettagliatamente nella degustazione raccontando il vino di Podere Pavolini con tanti descrittori per presentarlo al meglio, così persistente ed elegante in particolare nella finezza avvolgente delle sue bollicine, ma in questa visita l’incontro con Graziano Terzoni è interessante tanto quanto i suoi vini. Dunque per una volta concluderò soffermandomi ancora sul territorio, quello dei colli piacentini. Qui la rifermentazione in bottiglia è una lavorazione con origini antiche e il vino presenta un residuo zuccherino naturale, vinificato con uve autoctone considerate meno significative dal circuito enologico principale: «La rifermentazione in bottiglia ha, per me, un fascino particolare perché ogni bottiglia è un pezzo unico che viene dal patrimonio culturale, ancestrale, del mio territorio, condiviso con altre poche zone al mondo».
Un tempo Graziano Terzoni recriminava per non essere nato in una zona enologica più conosciuta, magari in Piemonte o in Franciacorta, in Friuli o persino in Champagne. Ma con i suoi eccellenti risultati di oggi, ci ha dato una risposta: ora non la pensa di certo più così.