Siamo sui colli di Coriano, tra Rimini e Riccione. A Tenuta Santini si producono vino (e olio) vicino alla costa ma allo stesso tempo prendendone le distanze: valorizzazione dell’entroterra, forza delle radici, ambizione, sperimentazione. Passione. La cura comincia dalla vigna, dal portare in cantina le uve migliori, grazie alla determinazione dei titolari e alla competenza dell’agronomo faentino Remigio Bordini, un nome una garanzia sul territorio.
Tenuta Santini è un’azienda di 28 ettari a corpo unico, considerata medio grande in Romagna (dove la media è di due ettari e mezzo), piccola in ambito nazionale. I fondatori, i fratelli Giuseppe e Primo Santini, agli inizi degli anni ’60, mentre le campagne si spopolano per la costa, decidono di restare e piantano sei ettari di vigna con la classica logica del salvadanaio: investire tutto quello che hanno in agricoltura. Fino al 2001 l’attività principale dell’azienda è quella di produzione delle uve, mentre la vinificazione è legata solo al vino sfuso. Con l’enologo Lorenzo Landi (lo stesso di Schiopetto e Lungarotti, per citarne due) si incomincia pian piano a pensare alla trasformazione del prodotto di base. L’idea di Landi è che si debba realizzare il modello cui il produttore aspira, piuttosto che imporre la propria visione. Passione, anima e personalità del produttore diventano l’univa via per fare grandi vini. Gli ettari di vigna aumentano, fino ai 23 attuali. “Non vinifichiamo tutta la produzione. Produciamo solo 80mila bottiglie. Core business è il Sangiovese, cui sono destinati circa 19 ettari”, spiega Sandro Santini, in rapporto dialettico con Landi in cantina. “Finalmente è stato modificato il disciplinare: dall’anno scorso non è più Colli di Rimini ma Rimini Doc”.
Sandro, “marchignolo” come gli piace definirsi, con la moglie Alessandra ci riceve nella casa colonica, ex stalla per buoi oggi sala per l’accoglienza degli ospiti. La tenuta è anche agricampeggio con cinque piazzole di sosta per camper, mentre al primo piano del caseggiato, di edilizia rurale tipica delle campagne romagnole, è nata la zona agrituristica. A fianco, la cantina.
Sandro è capofila del progetto, nato tre anni fa, di rilancio della Rebola, vino bianco fortemente identitario che può uscire solo come Rimini Doc (“e questa è una tutela per il consumatore da un punto di vista della tipicità del prodotto”). La Rebola è capace di connotare questo angolo di Romagna con un carattere preciso, schietto e immediato, ma senza per questo essere semplice. “Il progetto unisce sedici rebolisti su ventiquattro con l’obiettivo di valorizzare la Rebola e identificarla con Rimini, con tanto di brandizzazione della bottiglia, in uno scambio culturale fra l’entroterra e la sua costa. Ognuno di noi produttori mantiene il suo stile e il suo racconto di viaggio condividendo l’immagine del prodotto e della bottiglia comune, sul mercato dal 2021, su cui è impresso il nome Rimini. Ma attenzione, la Rebola è un vino, non è un vitigno. Il vitigno è il grechetto. La prima citazione storica che conosciamo è ‘Ruibola vel Greco’. Il Grechetto se non viene portato a maturazione ha una componente tannica notevole, quasi inaffrontabile. Il tannino va levigato per renderlo più morbido possibile. Con la Rebola è facile arrivare a gradazioni elevate. La nostra filosofia, che sviluppa lo stile del produttore e soprattutto l’anima del territorio, è raccogliere l’uva matura. Vinifichiamo in riduzione, con una vinificazione in bianco classica che cerca di non ossidare, usiamo gas inerti, il freddo, lieviti selezionati. Siamo rebolisti giovani: è la nostra quinta Rebola. Per fare un buon vino la componente principale è il tempo”.
La qualità del Rimini Doc è percepita dal consumatore? Santini non ha dubbi: “Non sono ancora pienamente soddisfatto di come venga percepita la qualità dell’enologia riminese, che ha nei bianchi un 30% della sua produzione, il restante è Sangiovese, anzi sono ancora più severo: quanto viene percepita l’enologia riminese? Il progetto Rebola nasce per andare in questa direzione, prima di tutto per far capire ai riminesi, ristoratori ed enotecari, di avere tra le mani un’enologia importante. Come prima scelta dovrebbero essere proposti i nostri vini, va spinto il territorio, fatto conoscere nel modo adeguato dai nostri professionisti di settore. Dobbiamo far percepire ai clienti che i primi a crederci siamo noi. I primi ad accorgersi della Rebola non devono essere i milanesi, anche perché non abbiamo vino per affrontare un mercato come quello”.
Di Rebola in totale sul territorio sono settanta ettari, per poco più di 100mila bottiglie, rese basse. “I numeri giusti li abbiamo, dobbiamo evitare che si arrivi a grandi quantitativi difficili da valorizzare e facili da svilire. Il nostro consorzio è più che altro un’associazione di produttori e agisce all’interno di un consorzio di tutela più ampio, il Consorzio Vini di Romagna, dove convivono più denominazioni. La Rebola è un prodotto che abbiamo solo noi, a Rimini, ci fa da testa d’ariete. Rimini Doc sta a significare che le uve devono provenire dalla nostra provincia”. Affonda: “Ma Rimini ha nelle sue corde anche quello che una volta chiamavamo taglio bordolese alla riminese. Cabernet Sauvignon, Merlot e Syrah stanno dando grandissime soddisfazioni sul territorio. Anche il Petit Verdot, che riesce ad avere struttura e non cede in freschezza. In giro per l’Italia sono pochi i successi territoriali con gli internazionali, sono di più i singoli successi aziendali. Sono convinto che qui nel Riminese possiamo fare un vino importante a livello di territorio. Dobbiamo, però, fare attenzione a correre sempre più verso l’alto, altrimenti non accettiamo quello che è in grado di offrirci la nostra terra. Il cambiamento climatico va combattuto fino a un certo punto, con selezioni particolari, esposizioni. Non possiamo chiedere al territorio quello che non può dare”.
Quanto al Sangiovese: “Riusciamo a svilupparne una versione che si lega con la nostra cucina perché siamo vicini al mare, come per esempio accade con il Caciara degli Ottaviani. Non cerco nel Sangiovese sottigliezze e acidità difficili da avere, ma al tempo stesso non punto a un vino seduto, punto a una certa vivacità nel bicchiere senza sacrificare l’aspetto materico. Con il nostro Beato Enrico potremmo iniziare a costruire quella gamba sangiovesiana della Rimini Doc. La versione di Sangiovese più corianicola la troviamo su un altro prodotto, il cru Orione. Rebola, Sangiovese e vitigni internazionali sono un treppiede su cui la Rimini enologica negli anni a venire può esprimere tutta se stessa”.