Allo scorso Vinitaly non è mancata una tappa nelle Marche, da Sartarelli. Ne parliamo nel reportage su Famiglia Cristiana, che riprendiamo qui di seguito.

Il Verdicchio è una storia di famiglia per loro. Un bigliettino da visita fortemente identitario con cui portare in giro per il mondo le Marche e i castelli di Jesi, un anello carico di storia e sapori genuini. E a ragione, perché un viaggio nelle Marche porta a vedere meraviglie, come scriveva Guido Piovene.
Nei castelli di Jesi il Verdicchio ha trovato il suo habitat migliore, irripetibile altrove con le medesime caratteristiche organolettiche e olfattive.
Il signor Patrizio, la moglie Donatella e i due figli, entrambi in azienda, Caterina, export manager laureata in economia e commercio a Monaco di Baviera, che parla come una vera berlinese un tedesco perfetto, e Tommaso, enologo pluripremiato, sono i  Sartarelli. Gli unici nelle Marche a produrre solo Verdicchio (in sei declinazioni, per un totale di 300mila bottiglie) e solo in purezza, ossia senza tagli con altre uve, come per esempio il trebbiano. Un unicum che li ha portati a pensare e sei anni fa a concretizzare, con l’aiuto del professor Riccardo Ceccarelli, un vero e proprio museo su due piani all’interno del complesso aziendale, un modo per raccontare questo grande vino e vitigno autoctono italiano, lontanamente imparentato con il trebbiano di Soave. “Ci sono tante false leggende intorno al Verdicchio. La prima volta che ne compare il nome non è con Alarico, re dei Visigoti, giunto nelle Marche dopo il Sacco di Roma del 410 d.C., che fa rinvigorire le truppe con un vino bianco non meglio precisato, ma nel 1557 nella traduzione che il letterato Mambrino Roseo di Fabriano ricava da un trattato di agricoltura spagnolo, dove la parola ‘torrontes’, una varietà di uva da vino, diventa ‘Verdicchio’”, spiega Caterina. “Da qui il nome In Verdicchio veritas che abbiamo dato al nostro museo, dove, tra l’altro, conserviamo uno dei primi libri di enologia mai scritti, risalente ai primi dell’Ottocento”.
Siamo a Poggio San Marcello, il più piccolo comune della provincia di Ancona e cuore della denominazione, uno dei diciotto comuni dei castelli di Jesi. Il futuro di Caterina e Claudio era già scritto cinquant’anni fa, nel 1972, quando nonno Feruccio, appassionatosi al vino, decide di vendere il suo panificio pasticceria per coltivare la vigna insieme alla moglie Matilde, nonna ”Milletta”, cui è dedicata la Riserva dei cinquant’anni dell’azienda, da annata 2020. “Nell’immediato dopoguerra, quando nessuno ancora ci pensava, nonno voleva investire in Argentina, nella zona di Mendoza, terra di grandissimi vini. I futuri suoceri, però, non acconsentono che Milletta parta. Lei, donna forte, ha sempre sostenuto il sogno del nonno di fare vino, cosa che si realizzerà qualche tempo dopo”, racconta Caterina.

Oggi gli ettari sono cinquantacinque. Nel vigneto più vecchio le viti hanno l’età dell’azienda e apportano maggiore complessità nel bicchiere. La sostenibilità con cui si lavora è una forma di rispetto per l’ambiente e per la salute del consumatore. I vini non hanno residuo chimico. Siamo oltre il concetto di biologico. In vigna non viene utilizzato rame, che inquina il terreno, ma solo prodotti naturali, induttori di resistenza a base per esempio di alghe, scorze d’arance, che avendo lo stesso codice genetico delle malattie quando sono spruzzati sulla pianta la “ingannano”: la vite li riconosce come un attacco patogeno e sviluppa naturalmente le sue difese diventando più resistente.
Conclude Patrizio: “Il Verdicchio è la nostra vita. Ed è un traino importante per l’economia marchigiana. Sempre più stranieri si avvicinano a questa terra grazie al vino, che raggiunge le tavole di tutti e mette tutti d’accordo”.