WINESTOP&GO – SPECIALE EMILIA ROMAGNA (6)

 

IL NOSTRO SOMMELIER VI RACCONTA… STORCHI A MONTECCHIO (RE)

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Per la sesta tappa del nostro Stop&Go emiliano, risaliamo lungo la valle dell’Enza; siamo nel versante ovest del territorio reggiano, proprio a confine con la provincia di Parma, sulle colline note per essere il cuore del Parmigiano Reggiano e, di là dal fiume, terre di stagionatura del Prosciutto di Parma. Per non cadere in tentazioni campaniliste, nell’eterna diatriba fra parmigiani e reggiani, là dove i dialetti locali si mischiano fra “Peerma” e “Rès” vado con un amico chitarrista e coltivatore di piante officinali in quel di Collecchio, nel parmense. Usciamo di poco da Montecchio Emilia e siamo già arrivati sulle primissime colline dove quasi ci sfugge l’ingresso della Cantina Storchi. È una realtà agricola completamente fuori dalle aspettative che avreste dell’Emilia, terra di pianure e di vigneti a perdita d’occhio, gestiti per lo più da grandi cantine sociali.
Ci accoglie Gianni Storchi che con il fratello Marco coltiva una vigna di soli 3 ettari in biodinamico sui terreni alluvionali dell’Enza; di là dal fiume, fra i boschi spunta imponente il castello di Montechiarugolo. Sembra un altro mondo, in cui la brezza del torrente fa sempre respirare la vigna, lontani dalle calure padane. Niente afa, dunque; siamo poco al di sopra dei 100 metri s.l.m. e verso sud le colline salgono in fretta. Tutto è piacevolmente atipico, anche le uve; pensate, siamo alla ricerca dell’eccellenza nei rifermentati in bottiglia da uve Lambrusco autoctone, e ci troviamo soprattutto di fronte a tre ottimi vini fermi: Perivana (Per Ivana, in onore alla mamma), da 100% Colli di Scandiano e Canossa DOC Cabernet Sauvignon; il secondo è il Braje, un taglio bordolese con prevalenza di Merlot piantato nella tenuta su suggerimento dell’enologo, un nome che Storchi non ha potuto rivelarmi, ma posso dirvi che è piemontese e ha lavorato per una delle cantine più prestigiose del Barbaresco. Entrambi con passaggio in barrique e tonneau fino a un massimo di due anni. Infine il Neroduva, un rosso dal colore impenetrabile, da uve Lambrusco in sovramaturazione, poi appassite nel sottotetto della vecchia casa colonica riadattata a cantina nel 2016, anno in cui le decennali esperienze in vigna dei due fratelli trasformano la lavorazione già completamente naturale in biodinamica. Entrambi fanno tutto o quasi, dal fratello Marco più dedicato alla vigna, giorno dopo giorno, a Gianni che si prende cura della cantina e del marketing. Sue sono le recenti etichette: eleganti, essenziali, quasi preziose con il logo a filigrana lievemente in rilievo. E come se non bastasse, si occupano anche della distribuzione italiana di alcuni interessanti champagne, fra cui l’ottimo Henriet-Bazin.
Ma la cosa più importante è il controllo della vigna, partendo da una materia prima sana, super selezionata (non si va oltre i 70 q per ettaro per un totale di 15-16.000 bottiglie annue). Un rigoroso protocollo voluto dagli Storchi sulle vigne che arrivano ai vent’anni di età, senza irrigazione. Senza concimazione. Le piante vanno in profondità alla ricerca dell’acqua e riportano la concentrazione minerale fino al bicchiere. Manco a dirlo, la fermentazione spontanea qua si fa con lieviti autoctoni, insistendo proprio sulla caratterizzazione della zona.
Poi non ci sono segreti, dal raccolto completamente a mano fino al controllo delle temperature del mosto conservato quasi a zero gradi. Ma torniamo allo storico rifermentato in bottiglia, come si è sempre fatto da queste parti. Infatti a fianco della sala degustazioni troviamo tutte le bottiglie del 2020 sdraiate con i loro lieviti, a temperatura controllata. Saranno pronte a maggio. Quello che oggi tanti chiamano ancestrale, da Storchi si chiama Pozzoferrato, come il nome del vecchio quartiere di Montecchio dove il papà già faceva il vino.
In degustazione Gianni Storchi ci porta il 2019 (12% Vol. da uve Ancellotta, Maestri e Salamino), sostanzialmente esaurito, dato che ne imbottigliano meno di 10.000 all’anno. Ma ci regala un raro confronto, inusuale per vini da uve Lambrusco, mettendoci di fianco un 2016. Fino a pochi anni fa, senza un corretto processo di rifermentazione in bottiglia, pensare di avere una verticale di Lambrusco era impossibile. Oggi, oltre all’evoluzione del colore che da un giovane porpora intenso diviene un rosso cupo, si apprezzano prima le giovani note balsamiche, i sentori di rabarbaro, viola, con note di territorialità in questo caso delicatamente minerali ed erbacee, aggiungendo col tempo sottili punte ferrose e una velata sapidità, fino all’evoluzione, dopo anni che concede maggiore profondità al palato, una persistenza elegante, con le bollicine sempre presenti e lievemente cremose, ingentilendo però il vino rimasto in evoluzione sui lieviti, con una nota finale di mandorla. Cosa che mi fa pensare senza dubbio all’abbinamento di un grande primo emiliano, i tortelli di zucca con il soffritto.
La degustazione si è completata con i tre rossi fermi, però torneremo sull’argomento, perché la cantina Storchi vale il viaggio, come recita una famosa guida di ristoranti, ma soprattutto vale la conoscenza dei fratelli Gianni e Marco. Due persone eccezionalmente disponibili, naturali e spontanee. Come il loro vino.