Da quando Davide Guarini con la ventiquattrore e il sogno di creare una solida realtà vinicola fra Oltrepò Pavese e Puglia girava tutti gli ipermercati d’Italia di anni ne sono passati, di chilometri ne sono stati macinati e di numeri da capogiro pure. La domanda sorge spontanea: con i grandi numeri si può mantenere un core business con un’anima familiare a dispetto delle dimensioni quanto a volumi e fatturato?
Nella Losito e Guarini (sede produttiva a Redavalle, nel Pavese, sede amministrativa e commerciale a Lentate su Seveso, in provincia di Monza e della Brianza) la gestione è affidata a due fratelli, Davide e Renato Guarini, quest’ultimo nel consiglio di amministrazione del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese, e alla mamma, la signora Luisa Losito che in azienda è un perno di controllo insostituibile, conosce tutti i dipendenti per nome ed è sempre pronta a darsi da fare “per il puro piacere di dare una mano ai figli”.
Tante le novità in arrivo. L’azienda guarda al futuro potenziando l’imbottigliamento e introducendo una linea pensata per la ristorazione. Una cantina innovativa e tecnologica, in crescita continua da cinquant’anni: si è passati da 300 mila bottiglie nel 1969 a oltre 34 milioni nel 2020, con gli spumanti che da poco più di 600 mila bottiglie nel 2017 stanno mettendo a segno un +42,2% nel 2021 e dovrebbero arrivare a sfiorare i 5 milioni di pezzi. Il punto di forza? Il rapporto qualità-prezzo, la lungimiranza e “l’aver saputo intercettare i gusti del consumatore”, tre fattori che congiuntamente hanno determinato i grandi numeri dell’azienda, con Bonarda e Sangue di Giuda in vetta alle vendite. Ne parliamo con il ceo Davide Guarini.

Siete la prima azienda a valore e volume in Lombardia?

E lo siamo anche in Area 1 Nielsen (Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Lombardia), dove l’etichetta “Le Cascine” è la quarta più venduta a valore e la sesta a volume. Invece in Italia siamo la prima azienda privata a volume. Con un fatturato che è passato dai 3 milioni e mezzo di euro del 2000 ai quasi 36 milioni del 2020. I risultati non arrivano a caso, ci siamo dedicati alla nostra azienda e mai persi d’animo anche nei momenti più difficili, come quello che stiamo vivendo, durante il quale abbiamo subito una lieve flessione che siamo comunque riusciti a recuperare. Puntiamo molto sulla realtà familiare italiana, considerato che nel mondo del vino stanno entrando anche dei fondi d’investimento. Siamo orgogliosi di avere ancora gli stessi valori di quanto siamo partiti. Abbiamo radici profonde in due territori, il Salento e l’Oltrepò Pavese. Il nostro assortimento infatti si compone principalmente di referenze provenienti da questi due territori. Anzi, potremmo dire che la nostra realtà ha tre anime, una legata agli spumanti, una all’Oltrepò Pavese e una alla Puglia. Gli spumanti rappresentano il prodotto su cui abbiamo deciso di puntare negli ultimi anni, dopo oltre 20 anni di stop. In Puglia, la parte del leone dei nostri vini è a base Primitivo e Negroamaro. Quelli di fascia più alta sono quattro: Primitivo di Manduria DOC (solo vent’anni fa era considerato solo come vino da taglio); il Susumaniello, un vitigno autoctono che si sta riscoprendo e ha un mercato sempre crescente; due blend di Negroamaro e Primitivo, di cui il secondo a vendemmia tardiva, “Bollato” e “Amatè”, che stanno riscuotendo successo sia all’estero che in Italia. Per quanto riguarda invece l’Oltrepò Pavese, come già detto la Bonarda è il nostro prodotto più venduto ma non dobbiamo dimenticare altre tipologie come il Pinot Nero, Pinot Grigio e il Sangue di Giuda, che sta avendo grande successo sia in Italia sia all’estero.

Lei parla di radici. Per una industria imbottigliatrice questo non è così scontato…

Mi perdoni ma il termine “imbottigliatore” suona quasi come dispregiativo. I nostri numeri sono importanti, ma noi, e ci tengo a sottolinearlo, non siamo una azienda spersonalizzata che imbottiglia qualsiasi prodotto, manteniamo un cuore legato alla famiglia e ai nostri due territori Lombardia e Puglia, siamo riconoscibili e competitivi. Il cliente che ci sceglie come partner lo fa perché sa di poter contare su costanza, rapporto qualità – prezzo e prontezza del rispondere e gestire ogni eventuale tipo di problematica. La nostra scommessa sull’Oltrepò Pavese risale alla metà degli anni ’90. Non che prima facessimo altro, abbiamo sempre operato nel mondo del vino, siamo alla quarta generazione, ma la nostra era una realtà tutta pugliese. I nostri genitori, Luigi Guarini e Luisa Losito, sono stati i primi a crederci, a credere nell’Oltrepò perché era la terra degli spumanti e dei frizzanti, vini di grande bevibilità. Gli spumanti potevano contare sul traino della cantina La Versa, realtà spumantistica fra le più importanti d’Italia. Milano era un “feudo” de La Versa, il Prosecco era indietro anni luce, la Franciacorta come la intendiamo oggi non esisteva ancora.

Oltrepò Pavese, un bilancio positivo quindi?

Il territorio si sta rivalutando, è in crescita. Siamo in ritardo rispetto a quello che ci aspettavamo. L’Oltrepò Pavese, straordinario quanto a potenziale vitivinicolo, ha vissuto anni molto complicati, diversi scandali nel giro di poco tempo e poca collaborazione tra le diverse realtà del territorio. Quando abbiamo iniziato, l’Oltrepò Pavese aveva l’immagine del territorio vincente, poi ci si adagiati probabilmente un po’ troppo sugli allori, con Milano che assorbiva la produzione, soprattutto dello sfuso. Era più facile che girare il mondo e far conoscere i prodotti ed il territorio. E questo ha rallentato il processo di sviluppo, mentre gli altri territori sono andati avanti. La strada per arrivare è il lavoro. Siamo convinti che sia solo una questione di tempo e l’Oltrepò Pavese abbia tutto il potenziale per diventare un’area vitivinicola conosciuta ed apprezzata in tutto il mondo.

Impressionante è la vostra crescita degli spumanti…

Sì, calcolando che siamo partiti solo quattro anni fa. I più venduti sono gli extra dry, sia bianco sia rosé, anzi proprio il Pinot Nero Rosé è una referenza molto richiesta dal mercato. Nella linea “Lebollé” il rosé raggiunge quasi le vendite del bianco, che è un dato folle. Gli spumanti con i quali facciamo i numeri più alti sono tutti charmat con basi caratteristiche dell’Oltrepò Pavese. Contiamo di riuscire a creare uno spumante Charmat identificativo del territorio che potrebbe essere il prodotto traino della nostra filiera.

La Bonarda, vino che ha molti detrattori fra gli stessi produttori, è invece il vostro prodotto più venduto?

Siamo leader in questa tipologia. Tradotto in numeri significa quasi 6 milioni di bottiglie. La Bonarda sostiene il nostro distretto e su questo vino bisognerebbe quindi puntare. Nella GDO la nostra Bonarda “C’era una volta” è considerata quella con il miglior rapporto qualità-prezzo. 

State pensando anche all’Horeca?

Stiamo ripartendo dopo tanti anni con una linea Horeca. La parte del leone in Italia la fa sempre la grande distribuzione. Sul mercato domestico siamo forti, all’estero abbiamo una capacità di penetrazione ancora contenuta, circa del 12-13%, anche perché è un discorso iniziato sistematicamente da pochi anni. I nostri mercati target sono Germania, Stati Uniti e Giappone. Il Canada e la Russia stanno partendo bene. Abbiamo aperto trattative anche con altri paesi, in totale una trentina.

Il Sangue di Giuda è una scommessa vinta?

Quest’anno siamo già rimasti senza prodotto, quindi direi di sì. Fino a quattro o cinque anni fa non ci puntavamo, ora per noi è diventato una delle referenze più vendute. Grazie a un cliente che ha scommesso su di noi e insieme a noi su questo prodotto, abbiamo avuto uno sviluppo importante e in costante crescita nel Centro-Sud Italia. Un prodotto può anche essere molto buono ma se il consumatore non lo conosce, magari anche perché un territorio non ci crede più di tanto, non si vende. Il mondo a un certo punto ha cominciato a conoscere il Prosecco e a berlo, ma il Prosecco esisteva anche prima. La filiera del Prosecco unita è stata abile nel far riconoscere in maniera efficace e capillare un prodotto già in produzione ma che partiva da numeri ridicoli se paragonati a quelli odierni.

State investendo ancora sull’Oltrepò Pavese?

Essere al passo è la nostra logica e per riuscirci bisogna investire. Oltre alle nostre etichette abbiamo diverse private label con gruppi della distribuzione nazionale e internazionale e questo richiede molta tecnologia in cantina. Una catena acconsente a produrre un vino scrivendo il proprio nome sull’etichetta solo se è certa che l’azienda a cui si affida è strutturata, se ce la farà a garantire nel tempo una continuità di prodotto, di qualità, di rapporto qualità – prezzo. Al momento abbiamo tre linee di imbottigliamento, ma la più vecchia delle tre, che faceva solo vini fermi, verrà sostituita e potenziata per poter produrre anche i frizzanti e gli spumanti. Inoltre, abbiamo un laboratorio interno per monitorare costantemente la qualità del vino in tutte le sue fasi fino al post imbottigliamento.

E i tappi che “volano”?

(Ride) In effetti sembra proprio così, ma in realtà i tappi passano molto velocemente da una parte all’altra della cantina attraverso una canalina trasparente che li risucchia. Comunque mi piace questa definizione.

All’inizio girare tutti i supermercati, uno ad uno, deve essere stata un’impresa titanica…

Abbiamo investito tempo, tanto, energie, tante e fatto sacrifici, tanti. L’ingresso mio e di mio fratello Renato in azienda è stato abbastanza traumatico. La nostra famiglia aveva appena fatto un investimento importante in Oltrepò quando nostro padre ha avuto grossissimi problemi di salute. Stavamo entrambi ancora studiando, ma non c’è stata altra scelta se non prendere le redini dell’azienda. Nella testa dei nostri genitori io dovevo essere il tecnico, mio fratello il commerciale. Lui, in effetti, segue la parte produzione, cantina e controllo qualità. All’epoca ci rimboccammo entrambi le maniche, io nel commerciale e Renato in produzione. Iniziai a girare l’Italia, andandomi a cercare i clienti. Mi diede una mano Vito Lucia, una persona molto conosciuta nella grande distribuzione e molto capace a livello di marketing. Ricordo che nello stesso periodo, per motivi diversi, facevo la corte sia a lui e che a mia moglie. È vero che io e mio fratello eravamo entrati in azienda, ma dire che eravamo capaci di gestirla è un’altra cosa. E all’epoca essere presenti nella grande distribuzione significava concludere trattative presso i singoli ipermercati. Io e Vito partivamo la domenica sera, caricavamo la macchina di campioni e portavamo avanti le trattative punto vendita per punto vendita. Vito Lucia, un fratello maggiore per me, mi ha insegnato il mestiere, facendomi riflettere sulle strategie di mercato. Mi chiedevo perché la gente dovesse comprare il mio vino e a che prezzo. Forse perché era più buono di quello già sullo scaffale? Bisogna creare qualcosa legato a una storia precisa, riconoscibile. Il mondo degli scaffali del vino è saturo, così come le carte del vino dei ristoranti. A meno di non essere un grande brand, una marca universalmente riconosciuta, se si vuole entrare in nuovi mercati, occorre fare qualcosa di diverso ad un prezzo competitivo ma giusto. Perché un cliente dovrebbe sostituire qualcosa che ha già e che funziona per commercializzare qualcosa di incerto? Innanzitutto, bisogna capire cosa funziona in un dato mercato, che tipologia di vino, per poi sedersi davanti ad un buyer e motivare perché dovrebbe comprare un nuovo prodotto.

La Gdo durante la pandemia è stata l’unica vera valvola di sfogo per il vino…

Sono tanti anni che le vendite di vino nella Gdo funzionano, sul fatto che questo non gli venisse riconosciuto posso essere d’accordo. E sono diversi anni che la Gdo sta cercando di riposizionare lo scaffale del vino. È fondamentale fare mass market, deve essere compito del produttore rendere appetibile un prodotto. È la richiesta che determina il posizionamento a scaffale. Noi posizioniamo circa 300 isole promozionali all’anno negli ipermercati in Italia dove facciamo degustazioni e facciamo conoscere i nostri prodotti. Nonostante la nostra Bonarda sia la più venduta in Italia non smettiamo mai di investire. Non si può giocare a fare gli imprenditori. Bisogna esserlo davvero soprattutto in un mondo come quello attuale che è sempre più competitivo.