Mai come in questo periodo gli effetti di una informazione non sempre all’altezza della situazione né rispettosa dei fatti, a volte ridondante, catastrofica e allarmistica, a volte discordante, si fanno sentire con risvolti negativi sul mondo dell’economia e dell’impresa, imponendo serie considerazioni da parte delle autorità competenti. Ne parliamo con Fabio Cavalera, presidente delll’Associazione Walter Tobagi, già inviato del Corriere della Sera da Pechino e Londra.

Cavalera, i media come hanno trattato all’inizio e stanno trattando l’informazione legata all’emergenza sanitaria in corso?

Nei primi giorni, in cui c’è stato l’allarme e poi il lockdown, ho visto una sostanziale impreparazione dei media in generale e della stampa in particolare. Certamente era impreparato tutto il paese, ma i media ne hanno rispecchiato il sentimento e lo stato d’animo. All’inizio mi sono molto lamentato per una serie di titoli e di pezzi allarmistici anche da parte di quelle testate nazionali che dovrebbero essere improntate al rigore, che sulla carta dovrebbero garantire una informazione meno da tabloid e più da giornale di riflessione. Lo sbandamento iniziale molto forte è stato cammin facendo corretto. Lo dico sinceramente, da consigliere dell’Ordine dei giornalisti e non da ex corrierista, che il Corriere della Sera sin dall’inizio si è comportato in maniera corretta fornendo una informazione sostanzialmente equilibrata, piena, senza nascondere ma con i toni giusti. Successivamente anche altre testate si sono messe su questa lunghezza d’onda. Se parliamo di carta stampata e televisione, a parte alcuni titoli urlati e talk show dove fare audience attraverso lo spettacolo rimane la preoccupazione principale, l’informazione è stata abbastanza corretta. Ho visto che anche nelle testate regionali e provinciali la linea che alla fine è passata è di sostanziale equilibrio, forse ha fatto da traino l’informazione data fin dall’inizio dal Corriere della Sera. Repubblica, che poi si è allineata, i primi giorni faceva una titolazione allarmistica, al di là della seppur grave situazione reale: c’era banalizzazione, spettacolarizzazione, un urlo oltre l’emergenza, non rendendo così un servizio al cittadino. Successivamente anche Repubblica, La Stampa, Il Messaggero si sono adeguati e hanno assunto una linea più prudenziale, non per nascondere, perché nasconde di più l’urlo dell’equilibrio, ma si sono adeguate all’interesse e al diritto del cittadino di essere informato in modo corretto, con i toni giusti.

Quanto una cattiva, esasperata informazione influisce sul mondo delle imprese, sull’economia di un paese?

La falsa notizia o la notizia volutamente gonfiata ha ricadute immediate non solo sull’economia ma su tutta la società. Anche le imprese hanno bisogno non solo di comunicare correttamente ma di ricevere notizie corrette. Una informazione sballata sui dati di crescita di un’economia generale o sull’andamento della produzione industriale o sui gusti dei consumatori può determinare nelle imprese ricadute decisamente negative, quindi è interesse anche dell’impresa aiutare l’informazione fornendo di sé una immagine veritiera e cercando di capire quali siano le fonti reali di cui fidarsi. Il fenomeno delle fake news ha delle conseguenze negative sulla cultura, sulla società, sull’economia. Il problema delle notizie false, con cui l’umanità fa i conti da duemila anni, si è ingigantito dal momento in cui i social sono diventati lo strumento di espressione a cui tutti si affidano per esternare sentimenti, emozioni e mettere in circolazione notizie non veritiere che possono agire sui sentimenti e sulle emozioni del cittadino. È molto facile far circolare una falsa notizia ed è difficile contrastarla, ma gli strumenti ci sono: il primo è affidarci ai professionisti dell’informazione. Per riconoscere una fake news ci sono diversi strumenti di verifica, a cominciare dai i siti seri che si adoperano nella selezione del fiume di notizie che passa nei social e sanno identificare il falso, o dai siti delle grandi testate che sono una garanzia non solo perché sono un brand riconosciuto di serietà, ma perché nel dare la notizia forniscono anche il certificato della verifica di quella notizia sotto forma di bollino, e questo credo che sarà uno strumento che tutte le grandi testate online assumeranno. All’estero già lo fanno, in parte il Corriere della Sera online su alcuni servizi offre una timbratura di veridicità, che sempre più sarà necessaria per aiutarci a riconoscere una notizia falsa da una vera. Il mondo online dei social però è immenso e il rischio del falso rimarrà elevato. Sarebbe pura illusione pensare che domani le notizie false non circoleranno più, perché la tecnologia offre strumenti anche ai professionisti del falso per aggirare qualsiasi tipo di controllo. Semmai è responsabilità del professionista serio farsi riconoscere come tale e quindi dare al cittadino una informazione sempre meno spettacolarizzata. Il cittadino alla fine sa riconoscere le persone serie, ma sta a noi essere capaci di responsabilizzare il lettore.

 Non è tutta colpa dei media. Abbiamo assistito anche a pasticci nella comunicazione istituzionale…

Certamente. Se i media hanno una colpa è semmai di aver taciuto le contraddizioni dell’informazione istituzionale. Nel caso dell’emergenza Covid-19 ci hanno messo del tempo prima di darci i dati effettivi sui decessi città per città, e questa non era una curiosità fine a se stessa. Non c’è stata una completa trasparenza. Questo tipo di comunicazione istituzionale in un paese democratico non va bene. Quella sul disastro accaduto nelle Rsa è stata una informazione all’inizio completamente omertosa e se non ci fosse stata la denuncia di qualche operatore interno alle strutture attraverso giornalisti di testate serie non si sarebbe saputo nulla. Possiamo e dobbiamo essere critici col mondo dei media, però poi c’è una realtà al di fuori dei media, che è quella delle istituzioni, che è stata omertosa. Il caso delle Rsa è stato taciuto, eppure le istituzioni avevano chiaro il quadro.

Se facessimo un parallelismo con la comunicazione ai tempi della Sars, qualcosa è cambiato in Cina?

Rispetto al 2003, anche se è una parziale consolazione che non cambia i termini della questione, c’è stata una informazione in termini di tempo leggermente migliore. Allora passarono mesi prima di riuscire a capire lo stato reale delle cose. Questa volta le informazioni date dalle autorità cinesi all’organizzazione mondiale della sanità sono state tardive ovviamente, però meno tardive rispetto a qualche anno fa. La Cina resta un sistema autoritario che nega il diritto all’informazione ed esalta una informazione pilotata.  Non possiamo pensare che ci venga a raccontare dal primo giorno che ha scoperto una pandemia in casa e la sta esportando.

Come cambierà il modo di comunicare?

Se vogliamo salvare il sistema, l’informazione deve essere sempre di più una informazione seria, corretta, non urlata. Questa è l’unica strada percorribile per salvarci. Altrimenti se non riusciremo a riaffermare la necessità di essere seri ed equilibrati consentiremo alla manipolazione di vincere. La comunicazione cambierà nel senso che dovremo usare sempre di più le tecnologie, senza rifiutarle a priori. Le piattaforme ci offrono straordinarie possibilità. Non dobbiamo essere negativi con i cambiamenti tecnologici, ma spetta a noi farne un uso equilibrato. Dipende dall’utilizzo che facciamo del mezzo, non dal tipo di mezzo che scegliamo. Dipende dalla volontà del giornalista di voler essere un professionista della notizia vera, dalla volontà degli editori. Spero che i giornalisti abbiano la possibilità e la volontà di imporre agli editori l’idea di una informazione corretta, perché essere giornalisti è un servizio che si rende alla collettività, anche se gli editori italiani lo stanno dimenticando e pensano all’informazione o come un veicolo di ricatto da usare nei confronti del sistema politico o come un veicolo improbabile di qualche profitto. Il giornalista offre un servizio che è garantito dalla costituzione: diritto di informare ma anche diritto dei cittadini di essere informati correttamente. Forse noi come giornalisti ce lo siamo dimenticato, però gli editori italiani questo non lo hanno ancora capito.

Cosa ne pensa delle interviste sui social media?

Non sono chiuso a questa idea. Tutto dipende dalla serietà del giornalista, che fa la differenza. Il mondo è cambiato e le interviste si fanno anche attraverso i social media. Il vero problema è chi le fa queste interviste e la sua credibilità, la sua consapevolezza. Il giornalista non ha solo diritti ma anche doveri, il suo primo dovere è essere corretto, indipendentemente da dove la pubblica l’intervista, sia su un sito internet o su carta stampata o sui social media. Il vero problema è che anche i giornalisti sono ammalati di protagonismo. Il difetto non è nel mezzo che usiamo, ma il vizio è in chi lo utilizza e sfrutta per suo piacere personale, per apparire e basta e non per rendere un servizio di utilità. Se mi comporto con spirito di informare e fare approfondimento va bene qualsiasi mezzo. Chi fa l’intervista è il giornalista, conta la sua responsabilità , la sua consapevolezza. Il giornalista ha in mano un potere enorme che utilizza in base a come è lui. Importante è saper mettere il pubblico in condizione di distinguere chi è manipolatore da chi non lo è. Il professionista dell’informazione risponde a regole deontologiche alle quali non rispondono influencer, un mondo inesplorato popolato da migliaia di persone, e blogger non iscritti all’Ordine. Questi ultimi soggetti, purtroppo, dobbiamo subirli se non si comportassero correttamente. Il segreto è convincere i lettori a non andare ad ascoltarli e a venire ad ascoltare quello che diciamo noi.