A Costigliole d’Asti, nella sede consortile, incontriamo Filippo Mobrici, presidente (per la terza volta consecutiva) del Consorzio di Tutela della Barbera, Vini d’Asti e del Monferrato e agronomo della Bersano, storica azienda con sede a Nizza Monferrato. L’occasione è l’evento “Rosso Barbera”. Mobrici sul territorio è una istituzione. È a lui che si deve la crescita reputazionale della Barbera sui mercati grazie a nuove strategie di comunicazione, promozione e sviluppo della denominazione – basta vedere le modifiche del disciplinare che entreranno in vigore prima della vendemmia 2023 – anche se “di strada da fare ce n’è ancora”, tiene a precisare. Senza trascurare il ruolo importante degli autoctoni in un territorio che ha spinto l’acceleratore sulla qualità e sulla caratterizzazione dal punto di vista scientifico e non solo cartografico della Barbera.
Barbera d’Asti, cui si è affiancata la realtà del Nizza che ne ha dimostrato la longevità. Barbera d’Asti che ha saputo uscire dai confini locali e diventare un vino internazionale e abbinabile a diverse cucine del mondo. Qualcuno ha scritto che sono vini che vanno bevuti, attraversati e in qualche modo abitati perché un consumo episodico è insufficiente per provare a comprenderli.
Mobrici a una profonda conoscenza del vigneto unisce la sua esperienza come degustatore ed esperto delle dinamiche consortili in un’area vitivinicola strategica. È sempre lui che ha declinato la parola “tutela” puntando sulla valorizzazione e sulla promozione. Quando è arrivato alla presidenza i soci erano 165, a fine 2020 sono diventati 400, oggi sono qualcosa in più. Il Consorzio tutela 13 Doc e Docg e con i suoi quasi 12mila ettari e 70 milioni di bottiglie rappresenta un terzo della superficie vitata a Denominazione d’origine del Piemonte.

Presidente, “Rosso Barbera” è un format che quest’anno ha dato segni di stanchezza?

È una manifestazione importante, ben pensata, ma migliorabile. Il produttore di vino a volte nutre attese che queste manifestazioni non riescono a esaudire, come la presenza di giornalisti e operatori di settore, e su questo bisognerà puntare in futuro. Il pubblico B2C, business-to-consumer, va bene ma bisogna coinvolgere anche quello B2B, business-to-business. Il valore di un territorio non è fatto solo dal consumo diretto. Noi produciamo 50 milioni di ettolitri di vino all’anno e se non fosse per l’esportazione non staremmo in piedi.

L’Italia è ancora il vostro zoccolo duro a livello di consumi?

Esportiamo il 50% della produzione. Il problema è il valore che non viene riconosciuto. Il consumatore è abituato da decenni a prezzi molto popolari che risulta difficile ritoccare. A scaffale una Barbera d’Asti si può trovare anche a 6-7 euro, normalmente non supera i 10 euro. Questo non è un prezzo equo per i viticoltori. La nostra funzione come istituzione è valorizzare il lavoro del vigneto. Finché nella filiera gode solo una parte, addirittura il ristoratore, nemmeno il produttore, la Denominazione involve e noi non abbiamo raggiunto nessuno obiettivo perché il ristoratore non ha legami diretti col territorio, come non li ha l’intermediario, ce li ha il viticoltore. Il nostro problema è che, a differenza di tanti altri prodotti, con il vino non siamo delocalizzabili. Un cellulare posso produrlo in Cina, ma una Barbera d’Asti è circoscritta a un territorio preciso. E perché io continui a produrre Barbera d’Asti è necessario che i vigneti siano remunerativi per chi li coltiva. L’obiettivo non può essere solo quello di fare grandi vini senza remunerare l’intera filiera, altrimenti abbiamo fallito e questi paesaggi coltivati alla lunga spariranno. Un problema che riguarda tutta l’Italia. Dobbiamo, e qui Francia docet, fare del vino un monumento nazionale. La viticoltura non può essere legata solo a questioni locali. Abbiamo bisogno di un ministro dell’agricoltura che sappia prendere in mano la situazione. La vendita di vino in Cina, per esempio, necessita di strategie in grado di tutelarla effettivamente. Le missioni della Francia nel Paese del Dragone sono accompagnate dal presidente della Repubblica, invece noi ci muoviamo singolarmente. Singolarmente, però, può andarci Angelo Gaia, che non ha problemi perché è conosciuto a livello planetario, ma se ci va un piccolo produttore siamo perdenti contro la Francia, dove a muoversi è, appunto, tutta la nazione. Dobbiamo lavorare come sistema.

 Siamo ancora lontani da questo?

Molto. Lo vediamo anche nelle regioni, dove non c’è unione. Continuiamo a essere il paese dei mille campanili. E il Piemonte è un esempio mirabile in questo senso. Siamo capaci di essere molto forti singolarmente, ma quando si tratta di fare squadra facciamo sempre fatica. E pensare che potremmo essere i numeri uno al mondo.

A noi manca la cultura del vino come emblema…

Il vino francese per la Francia lo è. Fino a poco tempo fa nei nostri grandi eventi internazionali con il presidente della Repubblica o il primo ministro veniva servito lo Champagne, che si regalava anche ai capi di Stato in visita. All’estero siamo soli, le nostre aziende sono sole, non abbiamo tutela da parte di nessuno e questo è di una gravità enorme. Basterebbe copiare dalla Francia. Ci serve un apripista istituzionale, poi si muovono le aziende. Se aspettiamo che le singole aziende aprano mercati arriveremo sempre secondi, terzi, quarti, quinti. Sa qual è il secondo Paese che esporta in Cina? L’Australia, che non ha tradizione vinicola perché le viti le abbiamo portate noi europei. Il vino in Italia rappresenta un giro d’affari diretto di circa 14 miliardi di euro e tutto l’agroalimentare ne vale meno di cinquanta. Lei capisce che è una proporzione molto importante. Ma quando si tratta di pianificare strategie quale valore si dà al vino? Quando il Governo ha aperto la Via della Seta con la Cina c’era forse qualche rappresentante vinicolo? Mi auguro che qualcosa possa cambiare. Nel nostro piccolo cerchiamo di aiutare le aziende a migliorare la loro posizione.

Qual è la vostra rappresentatività?

Abbiamo il 95% della produzione, sia del vigneto sia della vendita delle bottiglie. Dentro il Consorzio ci sono anche 22 cantine sociali, che a loro volta contano tremila soci. Quindi, di fatto, il nostro mondo è rappresentato da circa 3500 famiglie. Abbiamo 13 denominazioni, siamo il più grande Consorzio del Piemonte, con oltre 11500 ettari di superficie vitata, di cui a uva barbera 5500,  quasi la metà, il resto è diviso tra Grignolino, Freisa, Dolcetto, Ruché, Cortese dell’Alto Monferrato, Albugnano, Loazzolo, Terre Alfieri, Malvasia di Castelnuovo Don Bosco, tutte le varietà che si riconducono alla Doc Monferrato e alla Doc Piemonte, per un totale di 167 comuni, dal Monferrato ‘quasi torinese’ al Monferrato Casalese, fino a tutto il Monferrato Astigiano e all’Alto Monferrato Acquese. Circa 70 milioni di bottiglie, di cui 21 milioni di Barbera d’Asti, più una tipologia Piemonte, fresca, per altri  20-22 milioni, in totale più di 40 milioni di bottiglie su 70 sono di Barbera.

L’obiettivo del prossimo futuro sono i mercati europei?

Ampliare e diversificare l’offerta. Continuerà l’attività di promozione in Canada, Stati Uniti, Germania, Paesi del Nord e ci stiamo aprendo al Sud Est Asiatico. Siamo sponsor della cerimonia delle stelle Michelin per l’area scandinava, che si tiene in Norvegia, dove si premia il miglior chef dell’anno. Per noi è importante essere al fianco degli chef stellati, di un’alta ristorazione, perché la Barbera, che racconta molto del Piemonte e dei piemontesi, sta dimostrando grandi potenzialità. Dobbiamo ascoltare i viticoltori. È aumentata la consapevolezza di avere tra le mani un grande vitigno, che a torto negli anni è stato visto come popolare e non in grado di regalare vini importanti, e di riuscire ad addomesticarlo. La consapevolezza che con queste uve si potessero fare grandi cose ce l’ha data, con una scommessa vinta, il Nizza, una delle eccellenze del progetto di valorizzazione del vitigno. Il Nizza comprende 18 comuni, per un totale di 800-900mila bottiglie. Un’idea vincente, con un posizionamento più alto, perché a meno di 22-25 euro in enoteca non si trova, condivisa prontamente dalle aziende importanti, di cui il Sud Astigiano pullula. Questo ha fatto sì che il progetto crescesse con più facilità. Le grandi aree del mondo vinicolo nascono perché ci sono dei marchi forti con possibilità di investire e attendere i risultati. Produttori illuminati che hanno avuto forza e coesione. La Barbera, come la definiva il Carducci, è un’uva generosa, se non viene addomesticata produce tanto, la sua forza è la vena acida. I risultati si ottengono con il diradamento agronomico in vigna e il miglioramento della tecnologia in cantina, soprattutto con la seconda fermentazione, la più importante, quella malolattica, dove l’acido malico fortemente presente nella Barbera viene trasformato in acido lattico, più morbido. Questa fermentazione toglie la spigolosità acida del vino, tipica del passato, e si è rivelata una vera svolta. La Barbera è gastronomica. Pochi altri vini hanno la capacità di essere abbinati a tutto pasto.

Quali sono i vostri mercati target?

Uno è sempre stato la Germania, ma oggi è saturo. Era il mercato di riferimento più immediato. Oltre che saturo è poco sensibile a quel riconoscimento qualitativo che in questi anni si è verificato. I tedeschi sono stati abituati da noi a bere bene ma a comprare a basso prezzo. Ci sono  mercati nuovi, come quelli del Nord Europa, che invece ci riconoscono la qualità e il valore economico corrispondente. Poi tutto il Nord America. Nel Sud America comincia a muoversi qualcosa in Brasile. In Canada la Barbera d’Asti è il vino rosso più importato. Ci sono zoccoli duri come i Paesi dell’Est. Il Giappone è un mercato maturo, ma stanno emergendo realtà come Vietnam, Cambogia. Il Sud Est Asiatico è molto interessante. La Cina sarà il mercato del futuro, ma è un Paese troppo grande per andarci da soli, servono le istituzioni.

Lei è una colonna portante del mondo vitivinicolo astigiano e monferrino: quasi dieci anni di mandato…

Vivo il Consorzio come una missione. Quando me l’hanno proposto ho tentennato per qualche anno. Il Piemonte a me ha dato tanto, mi ha accolto prima come persona poi come professionista e oggi mi considero uno di loro, anche se le mie origini sono calabresi. Mi è sembrato il minimo che potessi fare per restituire qualcosa.

Cosa racconterebbe a chi non è piemontese per fargli conoscere la Barbera?

Racconterei il brand Piemonte. Il Piemonte è alla pari della aree vinicole francesi più vocate. È una regione d’eccellenza nel campo vitivinicolo, e non solo. Il fatto già che un vino provenga dal Piemonte dovrebbe essere per il consumatore sigillo di garanzia. La Francia è forte perché ha Bordeaux, la Borgogna e la Champagne, poi vengono i grandi chateaux. Noi, invece, abbiamo sempre la tendenza a mettere davanti il brand alla regione, al territorio. Nel mondo quello che è forte è l’originalità, da dove provieni. Per fare un esempio, si chiama made in Italy e non made in Parmigiano Reggiano. Il Parmigiano Reggiano fa parte del made in Italy ma non lo riassume. Se continuiamo a massacrarci con frasi del tipo a nord o a sud del Tanaro, non ne usciamo, perché allo straniero non interessa, a malapena sa dove si trova il Piemonte. Se giochi nel Real Madrid puoi essere scarsino ma giochi in una grande squadra, se giochi nel Catanzaro, con tutto rispetto, non è la stessa cosa. Bisognerebbe lavorare sul Piemonte, lo dico a ragion veduta perché sono stato anche presidente del Consorzio per la promozione del vino piemontese dal 2017 al 2020. Con ‘Piemonte Land of Wine’, che promuove il 90% delle Doc e Docg piemontesi, ho cercato di portare avanti il messaggio del Piemonte come territorio più forte delle singole aree. Il Piemonte è come un treno: ci devono essere dei vagoni che vanno trainati, ma anche altri che sono trainanti e non egoisticamente accentratori di interessi molto puntiformi e campanilistici. Qui entra in gioco la politica nel senso nobile del termine, non partitica.

Si può parlare di rinascita della Freisa?

La Freisa, come il Grignolino, è un vitigno nobile e storico del territorio, entrambi testimoniati da documenti di almeno cinque secoli fa. Sono autoctoni a tutti gli effetti, coltivati solo in determinate aree, ma non hanno riconoscibilità al di là di una geografia ben definita e salvo poche eccezioni non hanno neanche una grande esportazione, anche se hanno buone potenzialità perché entrambi sono vitigni tendenzialmente tannici, quindi vanno nell’ottica della morbidezza, in quanto i tannini maturando tendono ad addolcirsi. Oggi non ci danno le soddisfazioni che vorremmo dal punto di vista dei numeri. Di Grignolino si fanno 2,5-3 milioni di bottiglie, di Freisa arriveremo a 2 milioni. Bisogna fare serie riflessioni con i produttori, individuando tipologie ben definite, come succede con il Barolo. Purtroppo ci sono diverse scuole di pensiero. Dobbiamo chiarirci: c’è chi ritiene che il Grignolino debba essere bevuto fresco, secondo altri può sopportare bene l’invecchiamento. Questo crea confusione nel consumatore. Sul Freisa ce n’è ancora di più, tanto che abbiamo dovuto mettere mano al disciplinare di produzione perché ci siamo accorti che col Freisa si poteva fare ogni cosa. Abbiamo cercato di dare una regolamentazione più restrittiva, ma sono i produttori che devono crederci. Il Consorzio non fa vino, produce dei disciplinari secondo la volontà degli associati, cerca di far rispettare le regole e, se può, aiuta i produttori nella promozione. Fa da coordinatore. Con il Nizza questo è più semplice perché c’è un’associazione molto forte, con obiettivi precisi, stessa cosa con il Ruché, invece con il Grignolino e la Freisa si fa più fatica. Altro vitigno che avrebbe bisogno di essere rispolverato e riproposto in chiave moderna è il Dolcetto, un grande vitigno piemontese che sta sparendo. Da noi non ha mercato perché il nome inganna: ti aspetti un vino amabile e poi ti trovi un vino austero, tannico. Alcune esperienze, come Dogliani, non si sono rivelate vincenti, forse perché si è voluto conferire al Dolcetto un’identità che non sopporta, che comunque il consumatore non accetta. In più è un vino a scarsa remuneratività: con un appezzamento di Dolcetto non si riesce neanche pagare il lavoro in vigna.

La terra è aumentata di valore?

Negli ultimi 6-7 anni abbiamo fatto una indagine a livello consortile e in alcuni casi il valore della terra è triplicato. I terreni più vocati sono nel Sud Astigiano. Costigliole è il comune più vitato rispetto alla popolazione e uno dei tre più vitati a barbera insieme ad Agliano Terme e Nizza: da soli fanno circa 1200-1300 ettari di barbera, tanto rispetto ai 5mila vitati. Su un totale di oltre 160 comuni, tre rappresentano quasi il 30% della produzione. Oltre al Sud Astigiano ci sono aree sparse a macchia di leopardo. La zona di San Martino Alfieri non si può non definire un’area vocata perché ci sono grandi vini come la Barbera di Marchesi Alfieri. A differenza del Barolo, la Barbera ha un’area ampia di produzione d’eccellenza.

Che suoli predilige la Barbera?

Abbiamo un asse centrale che attraversa la provincia di Asti, più spostato verso il Nord Astigiano che verso il Sud, e sono le sabbie astiane. I vini prodotti qui sono leggermente diversi: meno carichi di colore, più eleganti, ma di pronta beva, fanno più fatica nell’affinamento. Verso il Sud Astigiano, verso Nizza, le terre diventano sempre più calcaree, argillose, forti, salate e regalano vini strutturati. Il terreno non è uniforme, basti pensare alle terre rosse di Pico Maccario, con vini di grande concentrazione, sanguigni, ferrosi. Fil rouge sono colore, acidità e sensazione di frutta fresca.

E la Barbera d’Alba?

La Barbera d’Alba nasce con lo stile dell’ancien regime. Loro utilizzano il legno, che dà morbidezza, invece da noi questa pratica si sta abbandonando: alcuni insistono con il legno, però sono pochi, la maggioranza fa emergere il frutto. L’Albese ha relegato il vitigno barbera sui terreni meno nobili, lasciati liberi dal Nebbiolo. Noi, invece, gli dedichiamo i versanti migliori.

 Nel futuro cosa bolle in pentola?

Consolidare quello che stiamo facendo, essere di riferimento per l’intero territorio, offrire occasioni sia a livello di comunicazione sia di natura commerciale, esplorare insieme alle aziende nuove possibilità, nuovi mercati, mettere mano, ai fini di un miglioramento qualitativo, ai disciplinari di produzione, dare ai viticoltori strumenti per affrontare nuove sfide. Il vino di trent’anni fa non è il vino di oggi e il vino fra trent’anni sarà diverso da quello di oggi. Noi dobbiamo intercettare i gusti dei consumatori futuri: ragionare sui bevitori attuali, i Millennials, ma pensare a quelli che stanno nascendo. Servono politiche di comunicazione adatte. Saremo molto distanti dal vino non alcolico, per noi il vino non può che essere alcolico. Fino a dieci anni fa avevamo un pubblico leggermente anziano, ma le cose stanno cambiando. È cambiato l’approccio: da un vino vecchio per osterie il nostro è diventato un vino pop. Bisognerà interrogarsi sui cambiamenti climatici che porteranno a prodotti con eccesso di alcol e chiedersi se il giovane li apprezzerà, se saremo noi che dovremo stare attenti a evitare che il vino diventi oggetto di diatribe internazionali. Dobbiamo insegnare al giovane a bere in modo diverso rispetto al passato. Ci troviamo di fronte a una comunità internazionale che attenziona il vino come probabile danno per la salute, quindi dobbiamo essere bravi a comunicare che il vino accompagna il pasto, che ha benefici per la salute grazie al resveratrolo dei vini rossi. Dobbiamo trovare alleati che ci diano una mano in questo, per consegnare la nostra storia a un futuro luminoso.