Inizio questo articolo in un modo diverso dal solito. Vi racconto un dettaglio. L’intervista con Matteo Lunelli era fissata alle 9.30 di ieri mattina. Poco prima mi arriva un messaggio con cui mi comunica, scusandosi, dieci minuti di ritardo. Dopo dieci minuti esatti arriva la chiamata. Ve lo racconto per due motivi. Primo: il mio intervistato poteva non avvisarmi perché lo scarto di tempo era minimo, nell’ordine delle cose. E invece per correttezza lo fa. Quando nessuno in genere lo fa. Secondo: dieci minuti sono stati, non uno di più. Quando giudichiamo il lavoro delle persone ci sono degli elementi che superficialmente potrebbero apparire trascurabili, ma che invece non lo sono perché ci comunicano un modo di essere, quindi un lifestyle. Perché Matteo Lunelli è grande nel mondo e perché le sue bollicine hanno una qualità percepita dai consumatori e dalla critica internazionale come capace di dialogare con lo Champagne me lo ha spiegato con un semplice gesto: l’attenzione ai dettagli.
Matteo Lunelli è presidente e amministratore delegato di Cantine Ferrari e amministratore delegato del gruppo Lunelli S.p.a.. Una storia gloriosa alle spalle. Giulio Ferrari, fondatore dell’azienda nel 1902,  grande innovatore, fu il primo a portare lo Chardonnay in Italia e a intuire la vocazione del Trentino per la creazione di eleganti bollicine di montagna. Una storia altrettanto gloriosa viene scritta tutti i giorni incarnando solidi valori familiari, un forte senso di responsabilità sociale, attaccamento e valorizzazione territoriale attraverso importanti progetti di accoglienza turistica e di sostenibilità ambientale.

La crisi economica e il suo ruolo di presidente anche di Fondazione Altagamma, che riunisce l’alta industria culturale e creativa italiana, impongono uno sguardo di ampio respiro. Di quale portata sono gli effetti di questa situazione generata dal Covid-19 sull’economia e in particolare sul mercato dei beni di lusso? Qual è il mood tra i suoi colleghi grandi imprenditori del luxury style?

Questa pandemia ha impattato in modo molto significativo sull’economia di tutti i Paesi. Nel secondo trimestre di quest’anno abbiamo assistito alla più grande contrazione che si sia mai verificata dal dopoguerra a oggi. L’impatto direi che è stato maggiore sul settore dell’alto di gamma, perché la maggior parte delle nostre aziende soprattutto quelle legate alla moda erano molto esposte alla Cina. La pandemia è stata la tempesta perfetta, ha iniziato a toccare il mercato cinese, poi via via tutti i mercati principali portando addirittura alla chiusura di molte realtà. La società Bain & Company, che analizza il comparto del lusso con quello che chiamiamo Altagamma Worldwide Market Monitor, stima in questo mercato una contrazione tra il 20 e il 35% a seconda dei settori. Tutti noi stiamo facendo diversi analisi per capire le tempistiche per riuscire a tornare ai livelli del 2019 quando, nonostante alcuni elementi negativi esogeni come la tensione commerciale tra Usa e Cina, la situazione di Hong Kong e la fragilità dell’Europa, il comparto godeva di buona salute grazie soprattutto al consolidamento dei principali driver di crescita: la Cina appunto, le giovani generazioni e il digitale. In questa crisi, scatenata da uno shock esterno improvviso, il ritmo e la tempistica della ripresa, che auspichiamo veloce a verificarsi, dipendono anche da fattori che oggi non sono perfettamente prevedibili: da una parte dall’efficacia delle politiche messe in atto per contenere la diffusione del virus e dall’altra dall’efficacia delle politiche economiche nel mitigare gli effetti negativi sui consumi. E allo stato attuale queste due variabili sono incerte. Noi riteniamo che tendenzialmente nel 2022 il mercato dei beni di lusso dovrebbe tornare ai livelli del 2019. Nonostante sia la più grande crisi che abbiamo vissuto, l’Altagamma Bain Monitor stima che dal 2020 al 2025 il trend sarà positivo con una crescita fra il 2 e il 3% annuo. L’alto di gamma negli ultimi anni era stato trainato da tre fenomeni: lo sviluppo del retail, il turismo, la convivialità e questi tre elementi oggi sono completamente fermi. Il turismo ha un fortissimo impatto anche in questo tipo di mercato perché i turisti in visita nel nostro paese poi comprano beni di lusso. La convivialità è un elemento importante non solo per il vino e i beni alimentari, ma anche per la moda perché uno si veste non certamente per stare a casa o fare chiamate via Skype, ma per andare a una festa, a un aperitivo, in ufficio, a incontrare delle persone. Quando tutto questo ripartirà sarà di grande aiuto alla ripresa del mercato.

La crisi globale avrà un riflesso di quale intensità su un prodotto come il vino che non si può considerare di prima necessità? Come sarà la ripresa per il comparto? Il sito Tannico ha sottolineato un calo delle bollicine, in particolare del Prosecco, dovuto a una minor voglia di festeggiare…

I consumi di vino sono stati impattati dalla chiusura di ristoranti e bar, i tradizionali luoghi dove tutti noi amiamo consumarlo, in particolare al ristorante il vino può essere abbinato al cibo e raccontato. La chiusura e il distanziamento sociale hanno fortemente impattato sui consumi proprio perché noi generalmente siamo abituati a goderci il vino in situazioni di convivialità, negli eventi, nell’incontro con gli altri. Questo vale per il vino in generale e in modo ancora più forte per le bollicine, che sono legate alle celebrazioni, a momenti di vita positivi. Nel periodo del lockdown abbiamo visto nella grande distribuzione che alcuni vini fermi sono cresciuti nei consumi, soprattutto quelli di fascia di prezzo più bassa, mentre le bollicine hanno comunque sofferto. Per fortuna ci sono ancora tanti consumatori che apprezzano un calice di bollicine anche tra le mura domestiche perché può essere un momento di svago o di gratificazione personale, da soli o con un compagno o una compagna, però storicamente il loro consumo è collegato ad altre situazioni. Noi ora stiamo cercando di comunicare ai nostri clienti anche uno stile di consumo diverso, a casa, sia per un aperitivo, un pranzo o una cena.

E con riferimento al Trentodoc e alla vostra azienda qual è stato l’impatto della crisi economica?

Il calo del vino per aziende dipende molto dal mix di vendita di ciascuno tra grande distribuzione e Horeca, canale che comprende hotellerie, restaurant  e café. Oggi le vendite in Horeca si sono quasi azzerate mentre in grande distribuzione si sono registrati dei cali intorno al 20 per cento. Le aziende del Trentodoc che sono più esposte al canale Horeca sono quindi state quasi totalmente ferme in questi mesi, quelle che invece erano presenti nella grande distribuzione hanno potuto compensare leggermente con le vendite. Il 2020 per il Trentodoc dipenderà molto dai consumi a fine anno, da quella che sarà la situazione legata alla pandemia nel periodo del Natale, perché le bollicine hanno una forte stagionalità. Io tendo a essere ottimista per due motivi: primo perché a Natale la situazione dovrebbe essersi stabilizzata anche se il virus non sarà scomparso; secondo perché a Natale non vogliamo rinunciare a gratificarci, motivo per cui credo che i consumi delle festività tenderanno a essere più resilienti. Se invece dovesse andar male il periodo del Natale, sarebbe un anno estremamente negativo. Il 2019 è stato per Ferrari straordinario, un record assoluto in tutti i sensi: volumi, fatturato, risultati e riconoscimenti. Lo scorso mese di aprile abbiamo approvato i bilanci del 2019, anno in cui abbiamo toccato 5,8 milioni di bottiglie per 79 milioni di euro di fatturato solo per Ferrari. Credo che le realtà che soffriranno di più a causa della crisi in atto non saranno né quelle piccolissime né quelle più grandi, ma quelle medie. Innanzitutto perché le prime sono aziende familiari dove sostanzialmente il lavoro è svolto dalla famiglia, hanno mercati specifici, con una struttura di costi molto snella. Le seconde, ossia le grandi realtà, hanno una maggior economia di scala e la capacità di affrontare anche i mercati internazionali. Le realtà medie, al contrario, sono più in sofferenza perché hanno una struttura di costi più alta rispetto alle piccole aziende, ma al tempo stesso non riescono a raggiungere quella scala necessaria per fare il salto.

Quali sono i mercati dove tradizionalmente siete più performanti e quali hanno risentito maggiormente della crisi?

Il mercato domestico è ancora il nostro primo mercato di destinazione. Basta pensare che per molti anni ci siamo concentrati solo sul mercato italiano, che da solo era in grado di accogliere tutta la nostra produzione. Da molti anni stiamo andando anche all’estero, dove abbiamo ancora significativi margini di crescita e siamo il primo esportatore di Metodo classico italiano. I nostri mercati più forti sono Usa, Germania e Giappone. Quest’anno il mercato che ha risentito di più è proprio l’Italia, purtroppo, e questo ci ha dato non poche preoccupazioni essendo il nostro primo punto di riferimento. Per quanto riguarda l’estero, invece, vedremo a fine anno. Inizialmente l’Italia sembrava il paese più colpito, invece oggi la pandemia ha toccato un po’ tutti i mercati.

In molti vedono nella riapertura dell’Horeca una falsa ripartenza. È così? Quanto dovremo aspettare per vedere i primi segnali di una vera ripresa del settore, salvo nuove situazioni di emergenza? Glielo chiedo perché ieri vi siete riuniti in un webinar con Identità Golose dal titolo “Identità di sala – Idee per il futuro” per riflettere sulla riapertura dei ristoranti e sul ruolo della sala oggi…

Spero proprio che non sia una falsa ripartenza. L’Horeca ci metterà un po’ di tempo a recuperare i volumi originari perché tutti i nostri clienti sono costretti a ridurre il numero di coperti. Sarà una ripartenza graduale questo sì, ci metteremo alcuni mesi prima di raggiungere i volumi del passato. Comunque meglio procedere con cautela che essere costretti a rifermarsi più avanti. Il settore dell’ospitalità è tra i più colpiti dalla crisi e sarà impattato ancora per qualche mese. L’importante è che il consumatore si senta gradualmente a suo agio nel frequentare di nuovo questi luoghi, di sicuro tanto dipenderà dalle capacità di accoglienza dei gestori dei servizi di ospitalità. Sarà una sfida difficile ma alla fine tutto tornerà alla normalità. È giusto riaprire perché l’economia deve ripartire, ma ci vuole attenzione. Sul tema ospitalità abbiamo una partnership con Identità di sala perché abbiamo da sempre voluto valorizzare il ruolo della sala, fondamentale nel successo di un ristorante. Questo tema sarà ancora più importante e determinante in futuro. I ristoranti nel breve periodo dovranno cambiare e adattarsi: saremo accolti da persone con la mascherina e dovremo rispettare le distanze, ma i nostri ristoratori sapranno trasmettere anche in questo modo il loro calore, la loro ospitalità. Nel lungo periodo la voglia di convivialità vincerà e si ritornerà al passato. In tutti i settori assisteremo a una crescente importanza del digitale e anche il settore Horeca sarà impattato da questo, dalle prenotazioni al delivery. Ci sarà un consumatore molto più consapevole e attento che ricercherà non solo la qualità intrinseca delle materie prime ma la sostenibilità, un valore sempre più importante in futuro. Le politiche economiche messe in atto non sono state finora così efficaci nel supportare questo settore. Ci vorrà tanta forza da parte degli operatori per riprendersi.

Un comunicato di Astoi Confindustria Viaggi lancia l’hashtag del turismo organizzato #cosinonriparto, una protesta social contro il Decreto Rilancio che, testualmente scritto, “non accoglie nessuna richiesta del comparto e distrugge le prospettive di ripresa, a rischio mezzo milione di occupati nella filiera a giugno”. Vino  e turismo sono da sempre collegati. Quali misure governative e dall’Ue si aspetta?

Per il settore della ristorazione e del turismo servivano misure più efficaci. A livello generale non ho compreso appieno l’idea alla base del Decreto Rilancio che fissa il limite a 5 milioni di euro di fatturato per il contributo a fondo perduto. Fra un’azienda che fattura 4,5 milioni e una che ne fattura 5,5 non vedo grandi differenze sostanziali. Invece oggi abbiamo uno spartiacque per cui chi è sopra i 5 milioni è fuori completamente dagli aiuti, chi è sotto i 5 verrà preso. Questa sorta di confine, però, rischia di creare delle discrete ingiustizie. Capisco la volontà di tutelare i più piccoli, che è ragionevole, ma mettere un confine secco divide il mondo in due anche fra realtà simili. Le aziende che al posto di 5 fanno 10 milioni di fatturato vanno tutelate perché hanno dei lavoratori cui devono rendere conto. Questa tendenza a guardare solo l’ultra piccolo forse è pericolosa, sbagliata. Per il resto capisco anche la difficoltà del governo che parte da una situazione di debito molto alta e quindi ha meno flessibilità di altri nell’intervento. Proprio per questo è fondamentale osservare quelle che saranno le mosse europee. Oggi bisogna sfruttare tutte le opportunità che l’Ue può offrirci. La polemica sul Mes o sul Recovery Fund è sterile. In Europa dobbiamo insistere perché questi fondi non siano erogati a fronte di vincoli eccessivi per il futuro, ma senza l’Europa l’Italia oggi sarebbe completamente persa perché avremmo tassi di interesse alle stelle e una moneta distrutta. È fondamentale giocare la partita all’interno delle istituzioni europee affinché l’Italia e i settori più importanti del Made in Italy siano messi al centro delle politiche del Recovery Fund. E questo è un lavoro che purtroppo gli altri paesi fanno molto meglio di noi.

Il mondo del vino resterà globalizzato o assisteremo a una limitazione dell’export e dei commerci in generale?

Sono convinto e spero che rimarrà globalizzato e lo dico da presidente di Altagamma. È fondamentale avere un mercato globale per il bello, buono  e ben fatto del nostro paese. L’Italia ha tanti settori che si reggono sulle esportazioni e noi dobbiamo scommettere sul fatto che il mondo sia innamorato di quello che creiamo e che lo sarà sempre di più: dei nostri vini, della nostra moda, del nostro design. Noi come Italia dobbiamo puntare a mercati sempre più aperti, essere assolutamente contrari a dazi e a blocchi nel commercio internazionale. L’Italia deve essere un paese che esporta nel mondo il proprio stile di vita e le proprie produzioni. Purtroppo ci sono delle spinte protezionistiche a livello mondiale che preoccupano. Basta pensare all’atteggiamento di Trump con le continue minacce dei dazi sul vino, che non sono ancora da escludersi del tutto anche se credo che adesso siano improbabili. Il protezionismo per l’Italia e per l’Europa è assolutamente negativo, lo ha ribadito anche la commissaria europea con la frase “there is no protection in protection”.  Certamente bisogna avere regole corrette nel commercio internazionale, bisogna nei confronti non solo dell’America ma anche della Cina avere regolamentazioni che ci proteggano dalla concorrenza sleale.

Dopo la difficile situazione vissuta dall’Italia, i consumatori di Paesi come Germania, Inghilterra, Stati Uniti compreranno senza difficoltà o con qualche remora i vini italiani?

Credo che non ci saranno remore da parte dei consumatori internazionali perché ormai tutti i paesi sono toccati dalla pandemia. All’inizio sembrava che il virus fosse cinese, poi italiano, ma oggi si sono resi conto che la pandemia è globale e tutti sanno come interfacciarsi con questo virus. Allo stesso tempo, usciti da questa crisi, sarà molto importante costruire un progetto di comunicazione serio per la reputazione del paese e su questo bisognerà lavorare per ristabilire immediatamente flussi turistici in Italia. Serve comunicare l’Italia come un paese da visitare, di cui acquistare i prodotti, in cui investire, dove magari venire a vivere, di cui imparare la lingua. Bisogna sfruttare questa opportunità per riposizionare sempre di più il nostro paese a un livello alto. Si sono svuotate di turisti le città d’arte e noi dovremo puntare a riempirle di nuovo, magari di consumatori e turisti sempre più di alto livello.

La Cina manterrà gli stessi livelli d’importazione dei vini dall’Italia e dal mondo o assisteremo ad un periodo di contrazione?

La Cina purtroppo importa poco vino italiano per ora, quindi bisognerà  lavorare su questo. Negli Usa noi abbiamo quasi un terzo del valore delle importazioni totali di vino come Italia e pesiamo più o meno come la Francia, invece in Cina le importazioni di vino italiano contano circa il 5% contro la Francia che è oltre il 40% del totale. C’è un netto sbilanciamento. In Cina abbiamo una quota di mercato al di sotto delle nostre potenzialità, frutto di una storia o magari di errori da parte nostra, sia del paese sia dei produttori. La Cina è il primo mercato che si sta riprendendo e questo deve essere uno sprone anche per noi a lavorare su un progetto di crescita del vino italiano.

È pensabile mantenere gli stessi livelli di prezzo o andremo incontro a una discesa?

Come Ferrari noi non abbiamo intenzione di abbassare i prezzi perché abbiamo sempre avuto scarsità di prodotto, tolto il 2020 che è una situazione contingente. Lavoreremo con la medesima massima qualità. Nella nostra storia abbiamo sempre optato per una politica di prezzo molto stabile, di leggera crescita considerati i costi e il posizionamento del nostro brand. Detto questo, il vino italiano di fascia bassa sarà fortemente impattato perché c’è una forte abbondanza di prodotto rispetto alla domanda: molti produttori hanno le cantine piene e per svuotarle andranno ad abbassare i prezzi. Questo a livello internazionale diventerà un problema perché sarà poi molto difficile rialzarli a livelli normali. Bisogna stare attenti in questa crisi a non usare  eccessivamente la variabile di prezzo, che rischia di essere un boomerang nel lungo periodo. Per il vino è importante mantenere un posizionamento che permetta di remunerare adeguatamente la filiera, i  contadini e  i territori. Spesso sottovalutiamo che dietro una bottiglia ci sono persone che devono curare per un anno il vigneto con il rischio della meteorologia che cambia. Sono troppe le variabili estremamente rilevanti rispetto al costo di una bibita. Quando vedo sugli scaffali nel mondo dei vini italiani a prezzi di poco superiori a quelli di una bevanda qualsiasi, penso che non sia giusto. Soprattutto in Italia dove non abbiamo possibilità di coltivazioni estensive come in Australia. In Trentino, in particolare, abbiamo poco territorio ed è ricavato tra le montagne, un ambiente come pochi altri in cui la vite va a incrociarsi con la natura. Dobbiamo puntare a un posizionamento di prezzo che ci permetta di difendere e valorizzare tutto questo.

Su Huffington Post Oscar Farinetti ha posto il focus su una narrazione sbagliata del nostro paese che ci porta ad essere guardati con commossa pietà a confronto con la nostra fulgida storia. Concorda?

Concordo con Oscar sul fatto che dobbiamo avere l’orgoglio dell’italianità e dobbiamo comunicare con orgoglio la bellezza del nostro paese. In questo momento dobbiamo trasmettere nel mondo un’immagine positiva, quella di un paese che è stato colpito come tanti, ma che però sa reagire perché ha risorse straordinarie per affrontare il futuro.

Che vendemmia sarà?

È il periodo della fioritura. Sembra annunciarsi una vendemmia positiva, ci sono condizioni per ora buone, con quantitativi in linea o leggermente inferiori alla media. Stimiamo che la vendemmia dovrebbe iniziare intorno al 20 agosto.

Come qualità percepita è ancora lo Champagne a farla da padrone o qualcosa sta cambiando alla luce dei premi che avete di recente vinto?

A livello internazionale c’è stato un cambiamento radicale di pensiero negli ultimi dieci anni, cambiamento che in Italia è avvenuto prima. Il consumatore è sempre più aperto a pensare che la qualità nelle bollicine non sia monopolio di una singola regione, la Champagne, che rimane tuttavia il riferimento perché è stata la prima ed è quella con la più lunga tradizione nelle bollicine di eccellenza. Gli opinion leader internazionali sono dello stesso parere: un ottimo Metodo classico non è più appannaggio della sola Francia. In questo panorama l’Italia, e in particolare il Trentino con la Trentodoc, può comunque giocare un ruolo da protagonista. Le bollicine di montagna hanno un’identità molto forte. Dopo un secolo di storia il Ferrari e il Trentodoc possono presentarsi sui mercati internazionali come una bollicina di eccellenza che può essere confrontata con tutte le maggiori maison di Champagne. Utilizzo il verbo “confrontarsi” perché noi non vogliamo essere una copia, ma raccontare il nostro territorio in modo specifico. Negli ultimi anni abbiamo ricevuto riconoscimenti importanti in questa direzione, come il premio di produttore dell’anno al campionato del mondo delle bollicine nel 2019 davanti a tante maison di Champagne e ricordo i 97 punti su Wine Advocate, la bibbia mondiale del vino, con il Giulio Ferrari Riserva del Fondatore 2007 e i 98 punti con il Giulio Ferrari Rosé 2006, che sono stati i più alti voti mai presi da una bollicina italiana. Anche questo è segno di un cambio di mentalità. Con il nostro Metodo classico hanno brindato i grandi della Terra, da Obama a Putin, l’anno scorso Macron, ma anche i campioni dello sport. Da qualche tempo siamo il brindisi ufficiale agli Emmy Awards a Los Angeles. A fine febbraio Penelope Cruz, che ha tenuto a battesimo la Costa Smeralda ed è innamorata dell’Italia, ha collegato le nostre bollicine al lifestyle italiano, quindi a un preciso modo di vivere. Sono soddisfazioni per chi spende la vita a comunicare proprio questo.

Lei ha saputo creare un’immagine forte del brand. Avrebbe mai immaginato questo successo quando era uno studente bocconiano?

Io ho avuto la fortuna di entrare in una realtà già solida. Era il 2003 e l’azienda aveva oltrepassato i cento anni di storia. Nel vino qualcuno dice che i più difficili sono i primi cento anni, quindi io avrei avuto il compito più semplice perché sono entrato nel centunesimo anno di attività. Insieme ai miei cugini e a un bellissimo team ho fatto tante belle cose che hanno continuato una storia di successo e ne siamo tutti particolarmente orgogliosi.

La vostra “cittadella del vino”, come è stata chiamata dalla stampa, a che punto è?

Siamo solo all’inizio, abbiamo appena finito un iter lunghissimo per ottenere le autorizzazioni. “Cittadella del vino” è un nome creato dai giornalisti che a me non piace perché in realtà si tratta di un rinnovo completo delle nostre cantine, sia in termini di accoglienza sia di spazi produttivi. Pensiamo a un grande progetto che possa dare un impatto positivo sul territorio. Tutte le istituzioni locali hanno capito l’importanza di questo rilancio territoriale, però i processi autorizzativi in Italia sono molto lunghi. Non nascondo che mi tremano un po’ le gambe a partire con un investimento così forte in un periodo difficile come questo, di incertezza, però a livello di famiglia ci siamo confrontati in consiglio di amministrazione e sono felice di poter dire che tutti gli azionisti hanno confermato la volontà di non fermare gli investimenti. Siamo fortunati perché la nostra situazione finanziaria è molto solida e ci permette di tener fede ai nostri piani, alle strategie. Abbiamo cercato di tutelare anche i dipendenti del gruppo: alcuni sono stati messi in cassa integrazione, ma l’abbiamo integrata per mitigare l’effetto di abbattimento del reddito. Abbiamo anticipato anche alcune provvigioni ai nostri agenti e abbiamo avviato alcune operazioni sul territorio, per esempio stanzieremo 400mila euro come liberalità del gruppo Lunelli, di cui 200mila per progetti legati all’emergenza Covid-19. Mi ritengo fortunato perché in una situazione così difficile la forza del nostro gruppo ci permette di avere un atteggiamento di responsabilità sociale nei confronti del nostro territorio e dei nostri stakeholder a partire da dipendenti, agenti e comunità che ci ospitano.

Le faccio una domanda che potrebbe sembrarle banale. Come si costruisce la credibilità e quindi la fiducia dei clienti?

Si costruisce rimanendo fedeli nel lungo periodo a dei valori e a dei principi, quegli stessi valori e principi che ci hanno resi grandi. Tradire i valori sarebbe tradire noi stessi come persone, come individui in una collettività, prima che la nostra storia lavorativa. La fedeltà a una visione, a una mission, è qualcosa che viene percepito e sempre di più riconosciuto dai consumatori. Non scendere mai a compromessi con la qualità in più di un secolo di storia ha creato la nostra reputazione. Essere fedeli a un’idea per cui Ferrari è solo Trentodoc, solo una bollicina Metodo classico da uve coltivate sui monti del Trentino. E come diceva Giulio Ferrari fedeltà anche a un sogno.

La cosa più bella e gratificante che le abbiano mai detto? 

Spero che la cosa più gratificante me la dicano in futuro. Essendo un’azienda di famiglia mi auguro che quando la nostra generazione passerà il testimone alla successiva i nostri figli ci guardino con la stessa ammirazione con cui noi abbiamo guardato la seconda generazione della nostra famiglia. In questo particolare momento a riempirmi di orgoglio sono stati i segnali di attaccamento all’azienda che abbiamo ricevuto da tutti i nostri collaboratori.

Una sua abitudine irrinunciabile…

Lo sci, Madonna di Campiglio, le Dolomiti, preferibilmente con un calice di bollicine eccezionali. Appena posso scappo a sciare. La montagna è uno stile di vita che forgia il carattere.