Se oggi l’Oltrepò Pavese cerca di affermarsi come terra spumantistica e di Pinot nero bisogna fare un passo indietro e volgere lo sguardo alla storia, a quelle cantine cantine visionarie che hanno saputo intravedere una direzione, quantomeno una linea chiara. Fu il Conte Augusto Giorgi di Vistarino a importare dalla Francia il pinot nero nella sua tenuta a Rocca de’ Giorgi. Era il 1850. Oggi la storia continua con la sua trisnipote, Ottavia. Lo chateau, che in alta collina alterna vigneti a zone boschive, ha un’estensione di 826 ettari, di cui 200 a vigneto, regno della biodiversità, per un totale di 100 ettari coltivati a pinot nero.
Dopo le interviste all’imprenditore Davide Guarini e al direttore del Consorzio Tutela Vini Carlo Veronese, a Villa Fornace  incontriamo la contessa Ottavia Giorgi Vistarino, la sua una storia votata all’eccellenza del Pinot nero con vini di grande freschezza, precisione ed eleganza. Nelle parole si legge un profondo senso di appartenenza, si percepisce quel cordone ombelicale che negli anni, anche quelli più bui per l’Oltrepò, non si è mai spezzato, anzi in lei è fortissimo, quasi viscerale il desiderio di far crescere un territorio non solo dal punto di vista qualitativo ma anche della politica territoriale. Una intervista che è un manifesto di idee, pochi concetti ma chiarissimi. “L’Oltrepò è molto esteso, produce 75 milioni di bottiglie spalmate su diverse etichette e proprio per questo ancora oggi fatica ad avere una sua precisa identità nell’immaginario del consumatore o dell’esercente, sia ristoratore sia enotecario. Bisogna partire da qui per capire come fare chiarezza”, spiega la Vistarino. “Nell’Alto Oltrepò ci sono produzioni di alta collina di qualità elevatissima, che non sono adatte alla produzione di vini generici perché richiedono una viticoltura costosa. Nel momento in cui un viticoltore ha un costo e una qualità di un certo tipo da rese molto basse deve immaginare di tirar fuori un prodotto che rispecchi queste caratteristiche. Se su un terreno vocato all’alta qualità facciamo vini da prezzo siamo finiti perché non c’è un ritorno economico. Non resta che estirpare la vigna, magari una vigna storica. Quindi parlare di Pinot nero è d’obbligo non solo perché ne abbiamo tremila ettari vitati ma anche per il fatto che la nostra è una zona particolarmente vocata che corre lungo il 45° parallelo. Il Pinot nero a livello mondiale è considerato un vino di altissima qualità. Nessuno esclude di produrre una etichetta con un numero di bottiglie importante e a un prezzo competitivo, ma per fare questo bisogna parlare di Oltrepò come di una terra di consolidata eccellenza, dove l’immagine percepita è a questo livello. Dobbiamo partire dal vertice qualitativo, dai vini che sono in grado di esprimerlo al meglio, di trainare gli altri, e su quelli investire e puntare. Viene poi da sé che un’azienda con una grande reputazione non avrà problemi a vendere anche vini d’entrata o di completamento di gamma, questo perché ormai nell’immaginario a livello reputazionale sarà talmente forte da riuscire a vendere anche altri prodotti a scatola chiusa. Alcuni miei vini neanche vengono degustati, basta il nome Vistarino in etichetta, non perché siamo più bravi degli altri ma perché abbiamo una reputazione. È su questo che si deve giocare la partita del futuro per il nostro territorio. Finché l’Oltrepò non è percepito come zona di alta qualità, diventa automaticamente difficile vendere il prodotto di fascia più bassa. Se la cooperativa Terre del Barolo vende il suo Barolo a 10-15 euro deve ringraziare quello che lo vende a 50, altrimenti lo avrebbe venduto a due”.

                                                                                                                                                        L’affondo: “Il numero di bottiglie di Pinot nero in rosso è ancora contenuto. Una volta se ne producevano numeri importanti non sotto la Doc ma come Igt Provincia di Pavia. Da qui la proposta di modificare il disciplinare e togliere l’Igt dal Pinot nero. Non possiamo fare il Pinot nero Doc e il Pinot nero Igt. È una follia. Non esiste da nessun’altra parte. Prima si deve parlare di territorio poi di marchi aziendali. Di territorio, però, non si parla se si fa l’Igt. Non siamo in una fase in cui servono i numeri, ma serve la reputazione che deriva dalla qualità. I numeri vengono sempre dopo, una volta che si è creata la domanda. Così pure il prezzo, che deriva dalla reputazione collettiva. Noi in questo momento non abbiamo domanda. Se andiamo nella carta dei vini di certi ristoranti, il Pinot nero italiano è ancora sinonimo di Alto Adige. O si fa un’analisi scientemente obiettiva di quello che succede sul mercato o staremo sempre così, sospesi nel mezzo”. E arriva il punto di svolta: “Credo che siamo arrivati al giro di boa, non si può più temporeggiare. Non dovremmo più chiamarlo Pinot nero, col nome del vitigno, ma occorre mettergli un nome di territorio. Tutti stanno andando in questa direzione, da ultimo il Chianti Classico con le unità geografiche aggiuntive. Quando bevo un Bolgheri non so se ci sia dentro un Cabernet, un Merlot ed eventualmente un Sangiovese, ma lo chiamo Bolgheri Superiore piuttosto che altro. Deve uscire la zona, il luogo che marca qualsiasi vino in maniera identitaria”.
Le chiediamo cosa ne pensi il Consorzio. “In Consorzio stiamo parlando, discutendo, lottando per portare a casa il risultato. Qualcuno le considera scelte snobbistiche”. Continua: “L’Oltrepò è grande e sono d’accordo che non si può parlare solo di Pinot nero. Detto ciò, le 228 uve riscontrate dai ricercatori lasciamole pure dove sono, o meglio se le vende il vignaiolo per fatti suoi, ma quando andiamo a promuovere un territorio non possiamo promuoverle tutte, bisogna fare dei distinguo. Se qualcuno vuole fare una Malvasia dolce, benissimo. Ma prima devo arrivare ad avere un marchio talmente forte creato dai vini di territorio che la Malvasia dolce sarà trainata. Io vendo meglio di ieri i vini entry level perché ho un marchio forte e riconoscibile che si è consolidato nel tempo. Ma la reputazione me la fanno il Pernice, il Bertone, il Metodo classico 1865, vini che danno dignità a un vigneto che è nato per fare alta qualità”.
La promozione del territorio passa attraverso pochi prodotti di eccellenza. “Non si può pensare di promuovere 27 vini. La critica che abbiamo mosso a Carlo Veronese è stata quella di voler organizzare delle masterclass con dentro tutto, dal Sangue di Giuda al Metodo classico. Non è possibile. Il Metodo classico, con dietro una storia gloriosa da raccontare, richiede una masterclass a parte di profondità di conoscenza di un territorio. Così il Pinot nero, il Riesling renano, che è un grande vino che vogliamo far crescere per creare un futuro mercato. Serve chiarezza, pulizia, senza l’ansia di dover vendere tutto. Anche la croatina è un’uva da valorizzare, perché se arrivano i veneti a comprarla in quantità industriale per fare dei vini rossi fermi, non frizzanti come facciamo noi, ci sarà un motivo. Poi c’è la Bonarda frizzante”. Rimarca: “Non si può pensare di fare promozione con un Pinot nero stile borgognone da lungo invecchiamento mettendogli a fianco in degustazione una Bonarda frizzante. L’interlocutore del Pinot nero, che ha uno stile preciso, non è lo stesso della Bonarda  frizzante. Stiamo parlando di due degustatori, di due consumatori completamente diversi. La Bonarda va fatta assaggiare separatamente, non al livello di posizione di un grande Pinot nero. Soprattutto non chiamiamo Oltrepò tutto il paniere, ma decidiamo cosa chiamare con questo nome e sul resto potremmo cambiarlo. Ho proposto Bonarda dei Colli Pavesi Doc, Oltrepò il Metodo classico, Oltrerosso un rosso fermo di croatina. Sono solo delle proposte per lanciare una direzione diversa, per separare le strade dei prodotti in base ai target di mercato. 

                                                                                                                                                      Cosa ne pensa della proposta di Veronese di un futuro Charmat Doc a uvaggio misto con le uve del territorio? “La tutela è una cosa, la promozione un’altra. Se vogliamo promuovere un territorio come particolarmente vocato a uve nobili, il Consorzio non può partire da un progetto perdente come quello del Prosecco per le piccole aziende. Per mantenere storicità, vocazione e qualità non possiamo pensare a nuovi vini. Se abbiamo la forza del Metodo classico, spingiamo questo. Se poi una azienda vuole fare uno Charmat va benissimo, ma non è con questo tipo di prodotto che ci si presenta sui mercati, considerato quello che sta succedendo nel mondo del vino, dove la forbice è sempre più larga: o c’è la grande qualità o c’è il bassissimo prezzo. Stiamo falcidiando la fascia media. Per quanto riguarda il bassissimo prezzo, non lo fai col Pinot nero ma con un vino generico puntando su rese alte. Mi chiedo perché non si parli mai di prezzo. A quanto si venderebbe questo Charmat? Non si parla mai di penetrazione dei mercati, di segmentazione. Sempre idee buttate sul tavolo. Chi mi risponde? A quanto lo vendiamo e quanta è la remunerazione a ettaro per il viticoltore oltrepadano? Lo vogliamo dire? Perché io queste risposte non le ho ancora ricevute”.
Le chiediamo perché una o due aziende soltanto abbiano fornito il Pinot grigio al Consorzio per il Vinitaly. Viene da pensare che il territorio, che ne vanta 1500 ettari vitati, non creda in questo vitigno e nella sua espressione territoriale. “Il prodotto non mi è stato chiesto. Hanno sbagliato. A una fiera commerciale si fa degustare tutta la produzione. Vistarino porta il Moscato, che è molto buono tra l’altro, anche se non è il primo prodotto che offre. Sappiamo, però, che c’è un territorio che sul Pinot grigio ha fatto una truffa perpetrata per decenni. Onestamente il problema non è il Pinot grigio. Il nostro Pinot grigio non produce 180 quintali a ettaro. Facciamo un progetto serio, uno storytelling, perché se oggi la Doc delle Venezie vende, un motivo ci sarà. Il Veneto ha puntato sulla denominazione. All’inizio non ci credeva nessuno, invece, oggi, se vuoi vendere Pinot grigio, non lo vendi se non c’è scritto Doc delle Venezie, a meno che a prezzo molto basso, da acqua sporca. La politica dell’Oltrepò ha avuto talmente tanto successo che il nostro Pinot grigio non vale più niente. Se non fosse così, l’uva varrebbe cento euro al quintale e non sessanta. La risposta me la deve dare il Consorzio. Nessuno dice dove hanno sbagliato”.
Il vino più venduto dell’Oltrepò è la Barbera frizzante. “Certo, perché è quello che costa meno. Io di Bonarda ne vendo di più che di Pernice. Però spingo il Pernice o la Bonarda? Il prezzo medio di una Barbera frizzante non arriva a due euro. Il problema dell’Oltrepò è che è bistrattato a prezzo basso su quegli scaffali che fanno i numeri. Si sta facendo confusione. Purtroppo ci sono tanti delinquenti sul territorio, occorre creare legalità, reputazione grazie all’etica e al rigore. Questo si raggiunge con un codice di comportamento, con la chiarezza, con la pulizia di tutto. Partendo da poche cose molto buone. A scendere ed allargare la base non ci sono problemi perché la porcheria si continuerà a vendere lo stesso. Se la reputazione è legata a vini scadenti, di fascia cheap, a questo territorio non daranno mai un valore congruo per una camera d’albergo, per un posto al ristorante, per un vino di grande qualità. Oggi si vende una emozione più che un prodotto. Possiamo vendere l’emozione con la Barbera frizzante? Quei vini saranno rimpiazzati dai vini in lattina, quindi chi ragiona così è già vecchio, in ritardo. Se vuoi fare quei prodotti lì, devi andare sulla lattina o resti indietro. Bisogna essere coerenti, con i comunicati  dobbiamo essere precisi. Se scaraventiamo sul banco trenta tipologie di vini diversi, i giornalisti non capiscono più nulla. Quando da ragazza giravo per il mondo per far conoscere la mia azienda, mi chiedevano di che territorio fossi. La mia risposta era Oltrepò Pavese. La domanda immancabile era che vino facessimo. Se io, invece, parlassi di Langa, di Barolo, non mi chiederebbero che vino faccio. Il mio problema era che dovevo spiegarmi e non sapevo cosa dire. Ora siamo cresciuti e ci troviamo nella stessa identica situazione. Andiamo oltre una volta per tutte”.